Scritto alle 18:02 nella attualità, banalità, diritti, domande, letture, persone, politica, Sistema mediatico, Weblog | Permalink | Commenti (19) | TrackBack (0)
Stamattina l'ho dedicata (e non è finito) a un lavoro che non ho mai capito se è utile, stupido, sensato, demente o tutto ciò insieme.
Ritagliare dai giornali (quotidiani, settimanali e mensili) articoli e lettere che mi interessano (o che paiono interessarmi) e poi metterli via.
In anni e anni ho accumulato non so quanta roba.
Ad esempio, sono riuscito a salvare quasi tutti (quasi) i miei articoli e lettere pubblicati.
E l'intera (divertentissima) rubrica di Vittorio Zucconi su Donna di Repubblica, centinaia di vignette di Altan, tutte le Bustine di Minerva (e altre decine e decine di interventi) di Umberto Eco, centinaia e centinaia di articoli su scrittori registi argomenti musicisti libri temi che se no sarebbero andati perduti.
Li ho infilati dentro i rispettivi libri, in cartelle appositamente costruite oppure in luoghi che non ricordo più.
Insomma: un lavoro fatto (complessivamente) maluccio.
Scritto alle 12:23 nella Auto-lezioni, banalità, domande, letture | Permalink | Commenti (8) | TrackBack (0)
Scritto alle 17:24 nella attualità, letture, persone, politica, Sistema mediatico | Permalink | Commenti (10) | TrackBack (0)
E poi mi lamento dei giornali italiani...
Come ogni anno il settimanale amerikeno Time ha stilato una lista (divisa in quattro sezioni: "leader", "pensatori", "artisti" ed "eroi") delle cento persone più influenti del mondo.
Dice il direttore Richard Stengel spiegando il criterio della scelta (effettuata dall'intera redazione): "Non si basa sull’influenza del potere, ma sul potere dell’influenza. Alcune delle personalità inserite sono influenti in senso tradizionale, altri sono individui le cui idee e azioni stanno rivoluzionando i rispettivi campi, trasformando le nostre vite"
Tra i leader il primo è il presidente brasiliano Inacio Lula da Silva (l'uomo più influente del mondo), seguito dall'amministratore delegato del colosso dell'informatica taiwanese Acer, J.T.Wang. Terzo il capo di Stato maggiore Usa, l'ammiraglio Mike Mullen, quarto il presidente americano Barack Obama, quinto Ron Bloom (manager dell’industria automobilistica di Detroit).
La copertina è dedicata a dieci star (o presunte tali) internazionali:
il calciatore ivoriano del Chelsea Didier Drogba,
la cantante Lady Gaga,
l’ex presidente Usa Bill Clinton,
la presentarice televisiva Conan O’Brien,
l'architetta irachena Zaha Hadid,
il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan,
la sciacquetta della destra americana Sarah Palin,
il padre di Apple Steve Jobs,
il presidente brasiliano Lula Da Silva
e Tim Westergren (fondatore del sito internet musicale Pandora).
Curiosità:
1) Le donne sono 31 su 100.
2) L’unico nome italiano nell’articolo di ben centoventidue pagine è quello di Donatella Versace (che figura come “biografa” di Jet-Li, attore cinese di arti marziali).
3) Le personalità meno influenti del mondo: Time include il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano. Con una motivazione semplice: "Prende decisioni e Silvio Berlusconi le ignora"
Scritto alle 10:40 nella attualità, banalità, letture, persone, Sistema mediatico | Permalink | Commenti (21) | TrackBack (0)
Domani Giorgio Albertazzi reciterà (gratis?) al duomo di Milano alcune pagine dei Promessi sposi.
Però ieri, in un'intervista alle pagine milanesi di Repubblica, dichiara:"Sono una soap opera...Manzoni non sa scrivere in italiano..."
Povero Albertazzi: sempre costretto da altri a fare ciò che non gli garba, come quando nel '43-'45 era tenente nella 3ª Compagnia del LXIII Battaglione della "Legione Tagliamento" - GNR al fianco dei nazisti nella fascista Repubblica Sociale di Salò.
Di che cosa dovrei pentirmi? (disse in un'intervista qualche anno fa). Il mio mito non era tanto quello di Mussolini (non apprezzavo la sua retorica), ma di Ettore Muti ucciso dai badogliani, di Italo Balbo abbattuto nel cielo della Sirte, degli eroi della Folgore disfatta a Birel Gobbi. La parte legale dell’Italia per me era quella; ed io, rispondendo al bando della Repubblica sociale italiana, ho combattuto per l’Italia.
Scritto alle 09:00 nella attualità, letture, Libri, persone, Sistema mediatico | Permalink | Commenti (25) | TrackBack (0)
"La mafia italiana risulterebbe essere la sesta al mondo, ma guarda caso è quella più conosciuta, perchè c'è stato un supporto promozionale che l'ha portata ad essere un elemento molto negativo di giudizio per il nostro paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra programmate dalle tv di 160 paesi nel mondo e tutta la letteratura in proposito, Gomorra e il resto"
Silvio Berlusconi
16 aprile 2010
Scritto alle 16:05 nella banalità, letture, Libri, persone, politica, Sistema mediatico, Televisione | Permalink | Commenti (9) | TrackBack (0)
Sull'Espresso di questa settimana, Umberto Eco scrive un interessante articolo in cui riprende un vecchio tema:
chi è il più grande e universale?
Charles Schulz o Jerome Salinger?
Chi resterà nei secoli?
Snoopy & C o il giovane Holden?
Per quanto riguarda me, non ho mai avuto la minimissima esitazione:
per il mio cuore e la mia anima, i Peanuts sono una delle dieci opere artistiche più alte di tutti i tempi.
Ecco il pezzo di Umberto Eco:
La prima (e purtroppo l'ultima) volta che l'ho incontrato, appena mi sono seduto al tavolo di quel bar, mi ha guardato con la sua faccia di fanciullo anziano o di anziano fanciullo, e mi ha chiesto: "Cosa ne pensa di Gesù Cristo?".
Adesso potrei lanciare un concorso per chi indovina chi fosse il personaggio, ma sarebbe difficile trovare un vincitore, quindi svelo l'arcano. Quel signore era Charles Monroe Schulz, l'autore dei Peanuts ovvero il padre di Charlie Brown. Ho saputo dopo che nella vita ha avuto momenti di interesse per i problemi religiosi, e altri, diremo, più laici, e mi diceva l'altra settimana sua moglie Jeannie che domande del genere lui spesso le faceva semplicemente perché era interessato alla gente, e voleva sapere che cosa pensavano. Non so, è che chi legge (e rilegge) i Peanuts non vi trova mai riferimenti espliciti a problemi religiosi e ad ansie metafisiche - e come potrebbero averne dei bambini che apparentemente sono ossessionati solo dal baseball?
E tuttavia di Charlie Brown si è scritto che "è capace di variazioni di umore di tono shakespeariano", la copertina di 'Linus' è senza ombra di dubbio l'oggetto transizionale di Winnicott, alle spalle di Lucy, di Schroeder e persino di Snoopy si agita l'ombra di Freud, mentre Pig Pen, dai capelli perennemente intristiti di forfora e le scarpe senza remissione infangate pronuncia parole degne di Beckett quando dice "su di me si addensa la polvere di innumerevoli secoli".
Insomma, Charles Schulz, che continuamente si stupiva che persone che lui considerava dei geni lo ammirassero, apparentemente disinteressato alle vicende del mondo e alle contraddizioni del suo tempo, è stato un grande poeta che ci ha continuamente raccontato, con due colpi di matita, la sua versione della condizione umana. Non so cosa Schulz davvero pensasse di Gesù Cristo, ma la sua era certo una forma di incantata religiosità.
Incanto irripetibile. Ed è stato naturale che avesse proibito che qualcuno dopo la sua morte facesse rivivere i suoi personaggi (come quasi sempre fa la macchina dell'industria dell'intrattenimento). Come accade ai classici, i Peanuts non possono essere aggiornati ma solo continuamente ripubblicati e riletti (tra parentesi, se esistesse ancora qualcuno che non li ha mai presi sul serio, ricordo che tutte le storie di Charlie Brown sono ora ripubblicate dalla Baldini Castoldi Dalai).
Una settimana fa, per celebrare i sessant'anni di Charlie Brown, si sono riuniti a Bologna in un'aula universitaria, insieme a Jeannie Schulz, che ha rievocato con grazia episodi della vita di suo marito, e a Fulvia Serra, direttrice di 'Linus' negli anni Ottanta, i pochi superstiti di coloro che avevano introdotto i Peanuts in Italia: Annamaria Gandini che aveva affiancato l'indimenticabile Giovanni prima per pubblicare in volume le strisce di Charlie Brown, nel 1963 (e io ne avevo scritto l'introduzione) e poi per dare vita nel 1965 alla rivista 'Linus' - e anche qui (scomparsi con Giovanni Gandini altri protagonisti di quegli anni sessanta come Franco Cavallone e Ranieri Carano) i superstiti eravamo Salvatore Gregorietti (che di 'Linus' aveva disegnato le copertine), e io che sul primo numero della rivista avevo chiacchierato con Elio Vittorini e Oreste del Buono, parlando della grandezza di Schulz.
Leggendo i resoconti giornalistici della serata bolognese vedo che mi viene attribuita l'idea che Schulz fosse più grande di Salinger. Certamente mi sento di condividere questa idea, perché Salinger rimane legato a una stagione, e al linguaggio giovanile di quegli anni, mentre Schulz gode invece dell'eternità di quei lirici greci che studiavamo a scuola e che ci raccontavano che "dormono gli uccelli dalle lunghe ali". Ma la comparazione era dovuta proprio a Vittorini, che già aveva pubblicato dei comics nel 'Politecnico', e aveva in quegli anni convinto Mondadori a ospitare in una collana di narratori stranieri le strisce del 'B.C.' di Hart.
Diceva Vittorini di Schulz: "Senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo. Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario. Salinger è un 'patetico' che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz, dove l'infanzia è il 'signifiant', il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po' come Johnny Hart (quello di 'B.C'.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra".
UMBERTO ECO
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Riflessioni del venerdi' di Pasqua
Dal Vangelo di Matteo
27, 15-24
15 Or ogni festa di Pasqua il governatore soleva liberare alla folla un carcerato, qualunque ella volesse. 16 Avevano allora un carcerato famigerato di nome Barabba. 17 Essendo dunque radunati, Pilato domandò loro: Chi volete che vi liberi, Barabba, o Gesù detto Cristo? 18 Poiché egli sapeva che glielo aveano consegnato per invidia. 19 Or mentre egli sedeva in tribunale, la moglie gli mandò a dire: Non aver nulla a che fare con quel giusto, perché oggi ho sofferto molto in sogno a cagion di lui. 20 Ma i capi sacerdoti e gli anziani persuasero le turbe a chieder Barabba e far perire Gesù. 21 E il governatore prese a dir loro: Qual de’ due volete che vi liberi? E quelli dissero: Barabba. 22 E Pilato a loro: Che farò dunque di Gesù detto Cristo? Tutti risposero: Sia crocifisso. 23 Ma pure, riprese egli, che male ha fatto? Ma quelli viepiù gridavano: Sia crocifisso! 24 E Pilato, vedendo che non riusciva a nulla, ma che si sollevava un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani in presenza della moltitudine, dicendo: Io sono innocente del sangue di questo giusto; pensateci voi.
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Il mio amico V. e' uomo di ottime letture e due settimane fa, in libreria, mi ha caldeggiato un romanzo: Sopra eroi e tombe dell'argentino novantanovenne Ernesto Sabato.
Come faccio sempre quando V. mi consiglia un libro, l'ho sfogliato.
E come mi capita molto spesso quando V. mi consiglia un libro, l'ho comprato.
Dopo aver letto il romanzo per giorni e giorni, rapito dalla vicenda e dalla scrittura di Sabato, chiusa la pagina 578 e preso dalla voglia di ricominciare tutto daccapo, mi sono dato del'incompetente ignorante:
come ho fatto per anni a blaterare di letteratura sudamericana ignorando quest'autore e questo libro che Claudio Magris definisce "uno dei capolavori del Novecento?
Anche per colpa degli editori italiani, che lo pubblicarono in versioni mutilate, fino a dicembre 2009 quando finalmente la Einaudi lo traduce integralmente.
Ma cosa racconta "Sopra eroi e tombe"?
Tante cose.
Comincia nell'aprile 1955, con la diciannovenne Alejandra che uccide a colpi di pistola il padre e poi si suicida dando fuoco alla stanza dove si e' chiusa assieme al morto.
E subito dopo torniamo a due anni prima, per vivere (atraverso vari punti di vista) l'amore tra Alejandra e Martin, piu' giovane di lei. Poche storie erotiche del Novecento ricordano in modo cosi' incandescente e misterioso che, un tempo, la parola "romantico" era pericolosa.
Pero' il romanzo di Sabato non si limita a mettere in scena questa indimenticabile vicenda amorosa: e' molto di piu'.
Dietro gli enigmi di Alejandra (chi non ha conosciuto una persona strana davvero strana?, che ci ha fatti star bene davvero bene?, e male davvero male?), c'e' la sua famiglia in cui fermenta ossessiva la storia argentina degli ultimi cento anni, c'e' soprattutto suo padre (un personaggio al cui confronto Hannibal Lecter sembra innocuo).
Pero' Ernesto Sabato racconta pure l'intera societa' di Buenos Aires: dagli intellettuali ai miserabili, dalle signore bene alle rivolte antiperoniste. E cosi' il suo libro diventa un'enorme sinfonia che volta per volta sa essere un romanzo sentimentale ma anche politico, una storia di fantasmi alla Henry James o alla E. T. A Hoffmann, una satira e una meditazione filosofica, la mappa di un viaggio agli inferi compiuto da un pazzo e un piccolo vademecum su come salvare la propria felicita' in un mondo insensato.
Alternando passaggi di lucida saggistica a momenti di avvincente suspense, Sabato scrisse (nel 1960) un romanzo ricchissimo e polifonico.
Dategli il Nobel finche' e' ancora vivo, a Ernesto Sabato che nel 2011 compira' cento anni.
Se e quando leggerete questo capolavoro, subito dopo, prendete in mano un racconto di H. G. Wells che fa da perfetta postfazione (non vi anticipo perche') a Sopra eroi e tombe.
Sono circa quaranta paginette.
Corrono via rapide come i migliori telefilm americani per poi depositarsi nella mente dense come un dialogo di Platone.
Il titolo e' Il paese dei ciechi.
Una spietata critica ai totalitarismi e un grande inno alla liberta'.
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Sul Giornale di oggi, c'era un articolo di Paolo Granzotto.
Parla delle persone di destra e di sinistra in corteo.
Non vi anticipo nulla sul contenuto, se non che (a mio avviso) val la pena leggerlo.
Magari quando scende in piazza il popolo della destra non è così disciplinato. Non sa «far massa», tende a sfilacciarsi ignorando le regole del perfetto manifestante di scuola comunista, che ha il suo passo standard, il suo spazio vitale codificato da lunga esperienza marciaiola. Però, giunto alla meta, in quanto a oceanicità il popolo della destra non sfigura e anzi glie le dà, a quello della sinistra. Che si distingue, poi, per l'uniformità antropologica: molte barbe da intellettuale, molte sottanone da girotondine, non poche innocenti creature a cavacecio, come si dice a Roma, dei babbi o marsupiate in grembo a mammà, mute di cani (di razza) col foulard etnico al posto del collare, molte Tod's, molte cosucce di Prada o Krizia e una infinità di cachemire. Ieri, in piazza San Giovanni, l'unico cachemire era quello che il ministro Ronchi s'era gettato alla sanfason sulle spalle (Ronchi è bravo e simpatico, ma dia retta: se teme il colpo di freddo, meglio che indossi la classica e benemerita maglietta di lana). Al popolo della destra non piace la divisa né il sembiante unificato. Il popolo della destra non si maschera: per usare un termine molto popolare, non se la tira. Abbiamo visto facce da commerciante e da casalinga, da impiegato e da artigiano, da professionista e da artista, da maestra e da precario, da partita Iva e da salariato. E nessuna assomigliava alla faccia collegiale del marciatore e della marciatora di sinistra: quella sussiegosa di chi si sente antropologicamente diverso, quella supponente di chi dice d'aver letto tutto Pavese e tutto Camilleri.
Non è solo la platea a distinguere la manifestazione popolare della destra da quella della sinistra. C'è il palco. Anche nella kermesse piazzaiola più informale il palco di sinistra sente tuttora il contagio - il sangue non è acqua - della tribuna della nomenclatura comunista in Piazza Rossa, ai bei tempi delle mastodontiche e bellicose sfilate del primo maggio. Vi regna quell'atmosfera tetra, plumbea che nemmeno la cadenza romagnola di Per Luigi Bersani (non parliamo del mollaccismo di Veltroni o dei pedagogici «come dire» di D'Alema) riesce a ravvivare. Se poi ci si riferisce all'apparenza, un disastro. Chi più chi meno, i mammasantissima della sinistra pare abbiano seri problemi di digestione - almeno questo si legge sui loro volti -, sembrano tutti affetti da gastriti e ulcere duodenali che nemmeno bidoni di Maalox riescono a lenire. Piegati dal greve fardello di far sorgere - una buona volta - il sol dell'avvenir i presenti sui palchi della sinistra trasmettono pessimismo, sconforto. Annunciano, non foss'altro che con il loro corruccio democratico, stagioni di sudore, lacrime e sangue.
Al contrario, ieri il palco di San Giovanni, il palco del Popolo della Libertà, era incredibilmente bello e gioioso. A parte Maurizio Gasparri che neanche avesse perduto tra la folla il cellulare inalberava un'aria imbronciata da far paura, non s'era mai visto un parterre così fresco, gioioso, positivo e vitale. Glamour, si potrebbe dire, per la presenza di ministri e ministre di piacevole e simpatico vedere (perfino Tremonti, che pure gode fama di non esserlo, su quel palco risultava amabile). Sentire uno stonatissimo Ignazio La Russa intonare (e insistere, poi, nel cantarlo tutto) l'inno nazionale, non ha certo destato stupore. Ma vedere una sorridente Letizia Moratti, generalmente molto riservata e schiva, dare il tempo agli sbandieramenti tricolori, be’, è stata una sorpresa. Renata Polverini, poi, deve aver fatto suo l'elettorato giovanile mostrando di conoscere una per una le parole di ogni canzone diffusa dagli altoparlanti. Meglio d'un comizio, a conti fatti. Un gran palco, insomma, giusto premio per il popolo della destra che non ha voluto mancare all'appuntamento. Un palco che s'è infiammato con l'arrivo di un Berlusconi in grande spolvero, poco battutista e molto concreto e arrembante, che poi è il Berlusconi che il Popolo della Libertà di destra ama e quello della sinistra teme di più. In piazza la destra ci va poco, ma quando ci si va è festa grande.
Paolo Granzotto da Il Giornale del 21 marzo 2010
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Scritto alle 21:00 nella letture, persone | Permalink | Commenti (2) | TrackBack (0)
Mi fate da cavia leggendo le prime pagine di una storia che sto scrivendo?
Fa parte di un romanzo collettivo: una trama molto complicata che non vi racconto perchè è davvero intricatissima.
Il mio testo sarà (più o meno) la cornice entro cui si incastonerà il resto della vicenda.
Eccolo qua.
Per l'esattezza, il mio nome completo sarebbe Harvey Philip Spector, ma voi chiamatemi pure con quello famoso: Phil Spector.
Qualcuno tra di voi dice che non mi conosce? I casi sono soltanto tre: o siete sordi o in questi ultimi cinquant’anni avete vissuto su un altro pianeta oppure più semplicemente non avete nessuna memoria per i nomi. Non siete ancora convinti? Vi dico due solo titoli di canzoni che senza di me non esisterebbero e poi la finiamo con questa stronzata di introduzione: The Long and Winding Road (nel 33 giri Let it be) e Imagine. Quando ascoltate il pezzo dei Beatles in quartetto e di John Lennon in solitaria, sappiate che ci sono io alla produzione, che il suono è farina del mio mulino, polvere bianca del mio sacchettino (se mi capite meglio così). E su The Long vi racconto una piccolezza su quella mezza checca di Paul McCartney: l’aveva scritta lui, prevedendo un arrangiamento moscio che faceva cagare. Al missaggio del disco, quando i Quattro Baronetti del cazzo s’erano arenati come Quattro balenotteri e non sapevano nemmeno dove voltarsi, io decisi come volevo io, aggiungendo violini e cori celestiali arrivati direttamente dal Paradiso. Quando ascoltò il risultato finale, Paul piagnucolò e si incazzò. Comunque, Let it be fu il disco beatlesiano di maggior successo. Qualcosa vorrà pur dire. Ma la mia piccola vera rivincita la ottenni anni dopo: nei suoi concerti, Paulino McCartyno non suonava mai The Long and Winding Road nella sua versione ma sempre nella mia. E Imagine? Quando lo stacco della batteria e l’incedere dei violini vi fanno venire nei boxer o nelle mutandine, ricordatevi sempre di Phil Spector. Vi bastano questi due esempi? E se no, voi che potete usare Internet, andate a farvi un giretto sul Web o su Youtube: troverete un sacco di canzoni mie.
Lo so che siete attenti. E infatti avete notato l’inciso di poco fa: “voi che potete usare Internet”. Perché io, stando qua, non posso nemmeno toccarlo Internet. Il computer sì, il Web no. Non è chiaro? Beh, lo immagino. Ne riparliamo dopo, così ve lo spiego. E vi racconterò altre cose: come sono finito in questo posto, il demonio (o il figlio dell’uomo?) che ho incontrato, la proposta che mi ha fatto e le voci della Mente In/visibile.
Ma intanto, abbiate la pazienza di seguirmi indietro nel tempo, tanti anni fa.
“Cosa voglio fare con A Christmas Gift For You? Semplicissimo: il più bel disco natalizio mai esistito e che mai esisterà. Prendere tredici grandi canzoni di Natale e trattarle con la stessa eccitazione di due adolescenti che per la prima volta si baciano e si toccano sul retro di un’auto al drive-in. Il tutto, senza perdere nulla dell’atmosfera natalizia”. Davanti al negozio e al taccuino del giornalista inglese del New Musical Express, ero nervoso, inutile nasconderlo. Intanto, quel londinese del cazzo alto un metro e novanta mi superava di quasi trenta centimetri. E poi mi rendeva frenetico la vetrina, colma di decine e decine di copertine del long playing uscito oggi: la foto coloratissima dei tre giganteschi pacchi natalizi con dietro Bob B. Soxx and the Blue Jeans, le Ronettes, le Crystals e soprattutto Darlene Love col vestito giallo e le braccia spalancata in un gesto così invitante. Non per nulla le avevo regalato la canzone migliore, Christmas (Baby please come home). Settimane di lavoro in sala d’incisione, musicisti sull’orlo (e forse oltre) della ribellione…col batterista Hal Blaine ero quasi venuto alle mani e il pianista Leon Russell avevo dovuto minacciarlo con la mazza da baseball…ma era venuta fuori una gemma che sarebbe durata nei secoli. Dal negozio uscì una ragazza con in mano il secondo disco di quel giovane Bob Dylan, Freewheelin’ qualcosa, roba musicalmente troppo scarna che aveva bisogno di venir rimpolpata da un suono come Dio comanda, batteria basso tastiere chitarre elettriche. Il giornalista inglese colse l’occasione per una domanda sulla politica americana: “Cosa ne pensa del presidente Kennedy?” “I suoi testi non sono male ma gli manca un produttore tosto” Di nuovo si aprì la porta: mamma e figlia con l’acquisto di un 45 di Elvis, poi si spalancò ancora per far entrare un uomo anziano. Tutte e due le volte il marciapiede fu percorso dalle canzoni di A Christmas Gift For You diffuse dagli altoparlanti del negozio. “Sono le 13.20” propose Malcom Flandry. “Andiamo a mangiare qualcosa?” Trovammo un tavolo alla Boos Brothers Cafeteria lì vicina. La radio era sintonizzata sulla ABC Network, l’orologio della parete segnava le 13.36 e io stavo dicendo che la carne dell’hamburger non sembrava…quando la voce di Don Gardner dall’altoparlante interruppe tutto, la mia frase, la forchetta del giornalista che gli portava tre pezzi di patate fritte alla bocca, la cameriera col vassoio con sopra quattro birre, la cassiera che dava il resto a un commesso viaggiatore, i clienti che mangiavano, una coppia che si baciava, una ragazza che si metteva il rossetto, gli Stati Uniti, il mondo intero: “Interrompiamo questo programma per trasmettervi un rapporto speciale della ABC Radio. C’è una notizia speciale da Dallas, Texas. Tre colpi d’arma da fuoco hanno colpito il corteo del Presidente Kennedy oggi in centro a Dallas, Texas. Questa è la ABC Radio”
Venerdì 22 novembre 1963, Charles Manson aveva ventinove anni e dieci giorni. Condannato per due stupri nel 1959, passava da un carcere all’altro e adesso era al McNeil Island nello stato di Washington. Il suo nuovo compagno di cella era polacco. Schifoso come tutti quelli col cognome in ski ma sempre meglio dividere l’aria con lui, Max Kaminski, che con quei negri del cazzo. O con qualche cubano. Almeno, Max stava ad ascoltarlo quando cantava i suoi pezzi, accompagnandosi col suono delle dita sui denti. Canzoni come Cease to Exist o People say I’m no good. O quel blues molto lungo che stava scrivendosi dentro la testa, The In/visible mind, la storia del tizio che si sveglia nel suo ufficio e non sa chi è, solo che si chiama Sam oppure Omar, e sgozza la moglie e poi entra in un mondo strano. E ogni volta che gliene faceva sentire un pezzetto il polacco gli diceva: “sei bravo. Appena esci di qua diventerai famoso. Ti ricorderai di me?” Sì, certo, come no. Sarebbe uscito di galera solo nel ’67. E intanto doveva progettare il proprio futuro: imparare a suonare la chitarra, pensare a come l’America ariana poteva liberarsi una volta per tutte della feccia nera, imparare a farsi amare e ubbidire dagli altri. E forse Kaminski era una buona cavia. Nacquero voci lungo le celle: “Gli hanno fatto saltare la testa…il presidente…” Rimbalzavano: “Hanno ammazzato…sparato…Kennedy…” Le labbra di Charles si stesero lentamente, soddisfatte: un amico dei negri di meno.
Scritto alle 21:28 nella letture, Libri, Musica | Permalink | Commenti (27) | TrackBack (0)
Ne ho già scritto più volte ma mi piace tornarci ancora.
E allora vi racconto il piccolo episodio di oggi, con tanto di colpi di scena.
Ma prima, la premessa: in edicola, riesco spesso a prevedere con esattezza quasi scientifica se Tizio/a comprerà Libero & Giornale, Repubblica oppure Il Corriere della sera, Sole 24 ore, Gazzetta dello sport.
Come faccio?
E' molto semplice.
Ancor prima che Tizio (o Tizia) dica qualcosa la sua scelta mi viene anticipata dalla sua faccia, l'espressione che i suoi lineamenti compongono, il suo abbigliamento, l'auto da cui scende.
Certo: a volte mi capita di sbagliare. Ma (come insegna Karl Popper) le affermazioni scientifiche sono proprio queste: quelle che possono venir smentite.
E vengo a stamattina.
Solita edicola di Opicina.
Compro Il Fatto, Repubblica, Il piccolo, L'Unità, il mensile di cinema Nocturno.
Sto scambiando due parole con i simpaticissimi titolari, quando entra un quarantenne che non ho mai visto prima.
In tre decimi di secondo, il mio istinto lo cataloga e formula la previsione scientifica: l'uomo acquisterà Il Giornale. Non Libero ma Il Giornale.
Accetterei scommesse di venti o trenta euro.
Invece, si avvicina al banco dei quotidiani e la sua mano fruga ravanando nella pila di Repubblica.
Strano, dico tra me e me, molto molto strano.
L'uomo guarda il titolo d'apertura di Repubblica, poi chiede: "Il Giornale"
I nostri sguardi si incrociano con reciproco disprezzo: lui ha visto cos'ho comprato io, io ho visto cos'ha comprato lui, apparteniamo a due Italie inconciliabili.
Scritto alle 12:09 nella attualità, Auto-lezioni, banalità, letture, persone, politica, Scienza | Permalink | Commenti (27) | TrackBack (0)
Oggi sulla Stampa di Torino (quotidiano sempre più interessante), c'è un articolo di Riccardo Barenghi.
Dato che vorrei averlo scritto io, lo ricopio tale e quale.
L'Unione fa la forza
L’immagine che domani pomeriggio ci restituirà il palco di piazza del Popolo sarà una fotografia che parla di politica. Della politica di tutto il centrosinistra italiano, dalle sue correnti più moderate a quelle più radicali. Lo potete chiamare Ulivo, la potete definire Unione, potete ironizzare sulla grande ammucchiata o sul mucchio selvaggio, ma il messaggio che quell’immagine contiene è molto chiaro e in un certo senso anche disperato.
Dopo sedici anni dall’avvento di Berlusconi, al quale si contrappose «la gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, la scena si ripete sempre uguale a se stessa, il copione viene rispettato e recitato a memoria dai protagonisti che si alternano sul palcoscenico, più o meno sempre gli stessi, a destra e a sinistra. Così come sempre gli stessi sono coloro che parteciperanno alla manifestazione - qualche anziano in meno, qualche giovane in più - che poi sono i «delegati» degli stessi elettori che dal 1994 votano per la sinistra. Anzi, votano contro Berlusconi.
Se la prima Repubblica è stata definita una democrazia bloccata, vista l’impossibilità per l’opposizione di allora (il Pci) di arrivare al governo, anche la seconda non scherza in quanto a paralisi. E non perché non si siano verificate alternanze di governo, in fondo Berlusconi è stato a Palazzo Chigi otto anni e il centrosinistra sette, ma perché è proprio la dinamica della politica a non essere in grado di muovere il suo stagno, di sparigliare il gioco, di proporre uno spettacolo diverso, magari con qualche idea nuova. Invece niente. La commedia, o se volete la tragedia, si replica all’infinito. E’ colpa di Berlusconi? E’ colpa dei suoi avversari? E’ colpa di entrambi?
Forse non è colpa di nessuno. Nel senso che finché sarà Berlusconi il protagonista del centrodestra italiano, gli altri non potranno che cercare di batterlo nell’unico modo possibile. Nonostante, infatti, abbiano provato diverse volte a esplorare nuove strade per sconfiggerlo, ribaltoni parlamentari, nuove alleanze, idee originali e suggestive tipo la veltroniana «vocazione maggioritaria», alla fine il gioco si riduce sempre allo stesso schema. Solo se si mette tutto insieme, da Rifondazione a Di Pietro, dai Verdi al Pd, da Vendola al popolo viola, dai pacifisti alle associazioni, dai no-global (se ancora esistono), dalla Cgil fino a chiunque si organizza in qualche maniera, in qualsiasi città o paese, circolo culturale, sindacato di base, Cobas, disoccupati organizzati... il centrosinistra può sperare (sperare) di vincere.
Prima obiezione: ma se pure dovessero riuscirci, poi non sarebbero in grado di governare, come hanno già ampiamente dimostrato. Seconda obiezione: ma qui si tratta di puro e semplice antiberlusconismo, uno stato d’animo più che un progetto politico.
La prima obiezione è ovviamente accolta, anche se, chissà, mai dire mai. La seconda invece è respinta per la semplice ragione che se esiste il berlusconismo, che è molto di più di uno stato d’animo, è una filosofia, un’ideologia, una pratica politica e di governo, un modo di pensare e di agire, allora ha diritto di esistere anche il suo opposto. Ossia un’altra filosofia, un’altra ideologia, un’altra pratica politica, un altro modo di pensare e di agire. Dunque, mettiamoci d’accordo: o si aboliscono entrambi, persino dal vocabolario, oppure si lascia a entrambi la loro dignità.
Il problema semmai è che in sedici anni il centrosinistra - al contrario del suo avversario - non è stato capace di tradurre in un progetto coerente e unificante questo suo antiberlusconismo, neanche quando ha vinto le elezioni, tanto meno quando ha governato. Sarebbe inutile ricordare le divisioni, le spaccature, i conflitti anche aspri che hanno reso impossibile la vita dei governi di Prodi, sarebbe invece molto utile se i sei o sette leader che domani pomeriggio saliranno sul palco di piazza del Popolo ci spiegassero cosa intendono fare per evitare che quella fotografia sia solo l’ennesimo scatto di una grande ma sterile ammucchiata.
Riccardo Barenghi
Scritto alle 11:57 nella attualità, auguri, letture, politica | Permalink | Commenti (13) | TrackBack (0)
Soldi agli avvocati
e soldi ai testimoni.
Soldi perfino ai giudici.
Ma non sarebbe meglio,
Silvio,
pagare i creditori?
Marco Valerio Marziale
poeta latino
nato ad Augusta Bilbilis (Spagna) 1 marzo 40
morto ad Augusta Bilbilis (Spagna) nel 103 circa
Scritto alle 22:31 nella attualità, letture, persone, politica | Permalink | Commenti (3) | TrackBack (0)
Ennio Flaiano,
5 marzo 1910
20 novembre 1972
Una piccolissima antologia:
"Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore".
"La situazione politica in Italia è grave, ma non seria".
"Gli italiani sono prontissimi a fare le barricate. Usando i mobili degli altri"
"Il bello dell'amore di gruppo è che si può dormire"
"Erano un pugno d'uomini indecisi a tutto"
"Abbiamo mai perso una guerra, noi italiani? Mai. Cioè, ne abbiamo perse alcune, ma per colpa del nemico"
"In Francia, il cattolicesimo è un movimento letterario"
"R. non ha letto nulla ma ha visto il film"
"Perde stupidità da tutte le parti"
"La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia"
"Il mio gatto fa quello che vorrei fare io, ma con meno letteratura"
"Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura".
"Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione".
"L’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio, preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito".
"In Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco".
"In questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Altri paesi hanno una loro verità. Noi ne abbiamo infinite versioni".
"In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti".
"Per gli italiani l’inferno è quel posto dove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d’accordo".
"Oggi anche il cretino è specializzato».
"Ho poche idee, ma confuse".
"Il sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati alle nuvole".
Un piccolo documentario:
Scritto alle 18:58 nella attualità, cinema, Film, letture, Libri, persone, politica, storia, Televisione | Permalink | Commenti (7) | TrackBack (0)
Oggi è il 1° marzo 2010, sciopero degli immigrati.
E io spero di farvi sorridere con un racconto che ho scritto un paio d'anni fa per l'Unicef.
L’UOMO NERO DEI BRACCIALETTI
Questa è la storia della guerra che noi ci combattemmo per due mesi, dei disastri che facemmo e di come l’uomo dei braccialetti li fece finire.
Ma per prima cosa le presentazioni: il mio nome è Michele Crismani e abito a Trieste con mio papà, mia mamma, il gatto Groucho e il cane Orsobimbo. Adesso ho tredici anni, ma quando successe tutto quell’ambaradan ne avevo nove. E vi devo confessare che io non sono mai stato un p.n. (premio Nobel), perché nemmeno in quel tempo mi piaceva andare a scuola nè studiare. Così, invece delle mattine chiuso in classe, preferivo i pomeriggi che passavo con i miei amici a giocare nel parco vicino casa. Se c’era bel tempo, dopo aver fatto i compiti (fatti…diciamo pure fatti…ma in realtà li buttavo giù alla come viene viene), andavo ai giardinetti di Gretta (il mio quartiere in collina) con mamma che mi accompagnava. Una vergogna abissale…sì, perché alcuni dei miei amici venivano da soli. Invece le mamme presenti facevano a turno: una restava a fare la guardia e le altre se ne andavano ma restavano in collegamento di telefonino, a osservare noi piccoletti che giocavamo a pallone, a correrci dietro, a nascondino, ai numeri, a universo saltato o ci scambiavamo le figurine dei Pokemon. Ci divertivammo una cifra, anche perché al parco c’eravamo praticamente solo noi, un gruppo di gatti randagi che abitavano là e qualche pensionato che veniva a tirarsi un pisolotto sulla panchina.
Ogni giorno alle tre e dieci spaccate, diretto al centro della città, passava giù per strada del Friuli un nero, uno di quelli che vendono giornali e coloratissime bandane, accendini e libri di cucina africana. Noi lo salutavamo, lui sorrideva, ogni tanto ci regalava un braccialetto, si chiamava Andrè.
Cos’ho scritto poco fa? Che al parco c’eravamo solo io e i miei amici? Sbagliato, perché un bel giorno (anzi: un brutto giorno) arrivarono quelli del quartiere di Barcola, che sta in riva al mare, sotto a Gretta.
Avevano circa la nostra età ed erano prepotenti e antipatici. Litigammo dal primo momento. Ma lo facevamo di nascosto dalla mamma-guardiana di turno. Ci davamo calci dietro i cespugli, ci sputavamo nascosti da un albero, ci pizzicavamo oltre l’angolo della villa abbandonata, ci mollavamo pugni e spintoni quando la mamma-poliziotta guardava dall’altra parte. Un pomeriggio i barcolani ci rubarono il pallone e lo ritrovammo tagliato in due come un’anguria. Il giorno dopo (o il giorno prima) noi spaccamo i pedali della bicicletta di uno di loro. Un’altra volta Matteo si prese una pietra in testa e gli venne fuori sangue come da una fontanella aperta. Insomma, dopo un mese le cose andavano sempre peggio e ci facevamo sempre più male, tutti quanti, noi di Gretta e loro di Barcola. Ma non potevamo mica dargliela vinta. No?
Però i gatti se ne erano andati via, le ore passate al parco non erano più divertenti, appena pranzato a me veniva mal di stomaco e di sera spesso vomitavo mezza cena e l’altra metà mi andava su e giù come in un ascensore che non funziona bene.
Ma il pomeriggio seguente ero là, con i miei amici, a combattere contro gli schifosissimi barcolani.
Un giorno, appena arrivo, il più odioso di loro, Fabio, mi strappa via dal polso il braccialetto di cotone che mi aveva regalato Andrè e lo butta, tutto rotto, sul marciapiede davanti ai giardinetti. Io non lo raccolgo di certo! Infettato com’era dalle manazze luride del barcolano…
Poi, come sempre alle tre e dieci precise, guardo fuori dal cancello del parco per veder passare Andrè, con il suo zaino strapieno di riviste e di oggettini.
“Ciao, Michele” mi dice, poi vede due cose, una che manca e una che c’è. Quella che manca è il vuoto sul mio polso sinistro, l’altra sono i brandelli del braccialetto sparsi per terra. Così Andrè si ferma e mi domanda: “Non piaceva più?”
“No. E’ che…”
“Si è romputo?”
“E’ stato Fabio”
“Rabbiato con tu?”
E allora gli racconto tutta quanta la storia.
Alla fine, Andrè si gratta la testa piena di capelli ricci: “Oggi non posso. Domani arrivo più prima e vengo in parco”
“Così ai barcolani li fai tutti neri” Poi accorgo della cavolata che ho sparato e gli chiedo scusa. Ma lui se la ride: “Tutti neri, ha detto” e dirigendosi verso il centro si ripete la frase da solo e ogni volta sento la sua risata.
Potete immaginare come mi sento gasato, in attesa di domani, quando il mio amico Andrè farà uno sterminio dei barcolani, rincorrendoli per le stradine e poi appendendoli agli alberi come pelli di coniglio. Non lo anticipo nemmeno ai miei amici più fidati, voglio essere solo io a pregustare questa mitica vittoria, questo leggendario trionfo, questa tremenda vendetta. E allora oggi guardo i barcolani con un po’ di pietà. E penso: domani Andrè vi fa neri.
E infatti eccolo qua, alle tre meno dieci. Entra nel parco senza zaino, si siede su una panchina libera, molla un fischio che lo sentono oltre tutto il golfo di Trieste fino in Slovenia, due pensionati che russavano come motorini in salita aprono gli occhi, tutti guardiamo Andrè, la mamma-guardiana i barcolani e noi di Gretta. Poi lui batte le mani nere con uno schiocco che arriva fino in Croazia e dice: “Qua!”
Gli ubbidiamo e ci raduniamo davanti a lui, tutti mescolati fianco a fianco, amici e nemici. Adesso se li mangia vivi, penso io.
E invece non va esattamente così.
Con il suo italiano che fa un po’ ridere, Andrè ci racconta la storia della sua vita, che è nato in Ruanda, che lui è un hutu, che hutu e tutsi non andavano d’accordo, che nel suo paese c’è stata una guerra, che in tre mesi sono morte ottocentomila persone, che la sua famiglia di nome Habyarimana era hutu ma non voleva ammazzare i tutsi e così tutti i suoi parenti sono stati uccisi e lui è scappato in Italia.
Poi dalle tasche tira fuori braccialettini colorati e li distribuisce. Se li mettono anche i due pensionati.
Da quel giorno, noi di Gretta e quelli di Barcola giocammo insieme.
Però ogni tanto qualche calcione ce lo davamo lo stesso.
Luciano Comida
da "Costruire la pace"
edito La Libreria dei Ragazzi-Unicef, 2005
Scritto alle 16:04 nella adolescenti, attualità, auguri, diritti, letture, persone, politica, Viagg | Permalink | Commenti (4) | TrackBack (0)
Ieri sera ho cominciato a leggere Tom Jones di Henry Fielding, scritto nel 1749, più di mille pagine.
Pur conoscendolo di fama, lo rinviavo da tanto tempo.
E dopo qualche capitolo, ero conquistato: tutta la solidità del romanzo inglese classico tipica dei mobili che durano per secoli, il ritmo ampio e caldo, personaggi che prendono subito vita, un umorismo pungente, ambienti sociali vari, satira sociale e realismo, il narratore onnisciente che interviene con sottile ironia, il multiforme tentativo di mettere in scena un intero mondo.
Che peccato che nell'Italia contemporanea non vi siano (eccezion fatta per i tre veneziani:Storia della mia vita di Giacomo Casanova, le oscene poesie di Giorgio Baffo e le commedie di Carlo Goldoni) opere paragonabili alla grande letteratura europea del Settecento.
Scritto alle 21:59 nella letture, Libri | Permalink | Commenti (7) | TrackBack (0)
Amo la letteratura poliziesca.
Ma da qualche anno, entrando in libreria e vedendo i banconi colmi di pile di centinaia e centinaia di volumi e volumi di libri gialli, noir, thrilling, suspense, thriller, neo-romantic-hard-boiled, commissari all'amatriciana, investigatrici spagnole, detective svedesi, gangsters di Mumbai, indagini su Dante Alighieri compiute da Stanlio e Ollio, misteri di Aristotele svelati da Walt Disney, delitti commessi da Caravaggio in coppia con Torquato Tasso, l'assassinio di Edgar Allan Poe risolto da Albert Einstein, il gatto poliziotto, er sirial chiller più ferosce de tutti, l'urtima rivelazzzione der giallo esotico der Paraguay, i segreti della crocifissione di Gesù nel poliziesco più originale dell'anno ch'ha sconvolto pure Povia, L'Ipnotista, La vicebrigadiera culona, La notte che m'hanno acciso, La città dell'inferno a rovescio, Il ritorno del Mitra di carne, Stra-Millennium, X, Doppia X, tutti librazzi lunghi centinaia di pagine...
vengo colto da un senso di nausea.
E così (se ho voglia di leggere un giallo) prendo (a casa mia, così non devo nemmeno spendere) qualcosa che vale per davvero.
Che so...
Wilkie Collins, Chesterton, Queen, John Dickson Carr, Ed McBain, Scerbanenco, Macchiavelli, Hammett, Sanantonio, Chandler, Conan Doyle, Borges, Patrick Quentin, Woolrich, Peter Lovesey, Souvestre-Allain, Ross Mac Donald, gli esordi di Connelly, certe cose di Ellroy, Sue Grafton, Stout, Simenon, i primissimi Altieri, due o tre Fruttero-Lucentini, la Highsmith...
Gente che di solito non aveva bisogno di riempire mega-centinaiate di pagine.
Gente che scriveva cose di valore.
Scritto alle 16:40 nella letture, Libri | Permalink | Commenti (23) | TrackBack (0)
Sul FATTO QUOTIDIANO di oggi c'era questa lettera aperta di Marco Travaglio:
Caro Michele,
ho riflettuto su quanto è accaduto giovedì ad Annozero. E, siccome è accaduto davanti a 4 milioni di persone, te ne parlo in forma pubblica. Parto da una tua frase dell’altra sera: "Parliamo di fatti". Il punto è proprio questo. Si può ancora parlare di fatti in tv? Sì, a giudicare dagli splendidi servizi di Formigli, Bertazzoni e Bosetti. No, a giudicare dal cosiddetto dibattito in studio, che non è più (da un bel pezzo) un dibattito, ma una battaglia snervante e disperante fra chi tenta di raccontare, analizzare, commentare quel che accade e chi viene apposta per impedirci di farlo e costringerci a parlar d'altro.
La maledizione della par condicio, dovuta alla maledizione di Berlusconi, impone la presenza simmetrica di ospiti di destra e di sinistra. E, quando si tratta di politici, pazienza: la loro allergia ai fatti è talmente evidente che il loro gioco lo capiscono tutti.
Ma quando, come l’altra sera, ci si confronta fra giornalisti, anzi fra iscritti all’albo dei giornalisti, ogni simmetria è impossibile: quelli "di destra" parlano addosso agli altri e –quando non sanno più che dire– tirano fuori le mie condanne penali (inesistenti) o le mie vacanze con mafiosi o a spese di mafiosi (inesistenti). Da una parte ci sono giornalisti normali, come l'altra sera Gomez e Rangeri, che non fanno sconti né alla destra né alla sinistra; e dall’altra i trombettieri. Che non sono di destra: sono di Berlusconi. E non fanno i giornalisti: recitano un copione, frequentano corsi specialistici in cui s'impara a fare le faccine e a ripetere ossessivamente le stesse diffamazioni.
Invece di contestare i fatti che racconti, tentano di squalificarti come persona. Poi, a missione compiuta, passano alla cassa a ritirare la paghetta. E, se non si abbassano a sufficienza, vengono redarguiti o scaricati dal padrone. Non hanno una faccia e dunque non temono di perderla.
Partono avvantaggiati, possono permettersi qualunque cosa. Non hanno alcun obbligo di verità, serietà, coerenza, buonafede, deontologia. Non temono denunce perchè il padrone mette ogni anno a bilancio un fondo spese per risarcire i danni che i suoi sparafucile cagionano a tizio e caio dicendo e scrivendo cose che mai scriverebbero o direbbero se non avessero le spalle coperte. Come diceva Ricucci, che al loro confronto pare Lord Brummel, fanno i froci col culo degli altri.
Sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda. E ci tocca pure chiamarli colleghi perchè il nostro Ordine non s'è mai accorto che fanno un altro mestiere.
Ci vorrebbe del tempo per spiegare ogni volta ai telespettatori chi sono questi signori, chi li manda, quali nefandezze perpetrano i loro "giornali", perchè quando si parla di Bertolaso rispondono sulle mie ferie e soprattutto che cos'è davvero accaduto a proposito delle mie ferie: e cioè che ho documentato su voglioscendere.it di aver pagato il conto fino all'ultimo centesimo e di aver conosciuto un sottufficiale dell'Antimafia prima che fosse arrestato e condannato per favoreggiamento, interrompendo ogni rapporto appena emerse ciò che aveva fatto (i due trombettieri invece dirigono e vicedirigono i giornali di due editori -Giampaolo Angelucci e Paolo Berlusconi, già arrestati due volte ciascuno, il secondo pregiudicato- e non fanno una piega).
Ma in tv non c'è tempo per spiegare le cose con calma. E, siccome io una reputazione ce l'ho e vi sono affezionato, non posso più accettare che venga infangata ogni giovedì da simili gentiluomini.
Gli amici mi consigliano di infischiarmene, di rispondere con una risata o un'alzata di spalle. Nei primi tempi ci riuscivo. Ora non più: non sai la fatica che ho fatto giovedì a restarmene seduto lì fino alla fine. Forse la mia presenza, per il clima creato da questi signori, sta diventando ingombrante e dunque dannosa per Annozero. Che faccio? Mi appendo al collo le ricevute delle ferie e il casellario giudiziale? Esco dallo studio a fumare una sigaretta ogni volta che mi calunniano? O ti viene un'idea migliore?
MARCO TRAVAGLIO
Scritto alle 19:21 nella attualità, auguri, letture, persone, politica, Televisione | Permalink | Commenti (45) | TrackBack (0)
Ho conosciuto i libri di James Ellroy nell'estate del 1989, con Dalia nera.
Da allora non l'ho più mollato, tra alti (per esempio L.A Confidential), altissimi (per esempio Dai miei luoghi oscuri) e così così (per esempio Scasso con stupro).
Dopo lo stupefacente American tabloid del 1991 (che credo sia il suo capolavoro) e il seguito Sei pezzi da mille del 1999 (assai inferiore), attendevo con moltissima curiosità il terzo e conclusivo capitolo della trilogia, Il sangue è randagio.
Uscito un paio di settimane fa, oggi l'ho finito in treno (un incontro con i ragazzi della scuola di Codroipo).
Com'è Il sangue è randagio?
A mio avviso continua sulla scia dei Sei pezzi ed è dunque una delusione.
Perchè anche qui manca ciò che faceva la straordinaria grandezza di American: oltre allo stile serrato e alla dinamite, il perfetto e denso incastro di continui rimandi tra storia politica, personaggi veri e di invenzione, vicende reali e sotto-trama poliziesco-criminale. In American tabloid, i due fratelli John e Bob Kennedy (con Bobby nelle vesti dell'eroe positivo), il miliardario Howard Hughes, il direttore dell'FBI Hoover, i boss mafiosi, il capo del losco sindacato dei trasportatori Jimmy Hoffa e tanti altri erano in scena vividi e importanti.
Poi, nei due seguiti, questa dinamica viene a mancare quasi del tutto. E la trilogia ne risente in maniera pesantissima.
Inoltre, il motore "etico" del primo pannello (la lotta di Bob Kennedy contro il crimine organizzato) non c'è più e (a partire dai Sei pezzi da mille) Ellroy non lo sostituisce con un'analogo (altrettanto forte) propulsore politico-sociale. In questo modo, il secondo e terzo romanzo vanno avanti quasi per forza d'inerzia. E anche il potente trio di personaggi "inventati" di "American tabloid" (Kemper Boyd, Pete Bondurant e Ward Littel) non trova eredi all'altezza.
Insomma, malgrado la mole quantitativa dei libri sia andata crescendo dal primo al terzo, non mi pare si possa dire altrettanto per la qualità letteraria, narrativa e documentaria.
Resta in ogni caso lo straordinario livello di American tabloid, uno dei più geniali romanzi polizieschi di tutti i tempi.
Scritto alle 18:54 nella letture, Libri | Permalink | Commenti (4) | TrackBack (0)
Qualche giorno fa l'ho visto in edicola (pubblicato dalla Panini Comics a tre euro per una cinquantina di pagine) e pensavo fosse una porcheria.
Così l'avevo lasciato là.
Poi ieri il mio amico Roberto della fumetteria Neopolis di Trieste me ne ha parlato bene e l'ho comprato (confesso: sempre diffidente).
Però, dopo averlo letto, ho cambiato idea: Dante's Inferno è molto, molto interessante.
Il primo volumetto (in tutto saranno quattro) di un'opera che racconta la storia di Dante Alighieri, Beatrice Portinari e del viaggio all'Inferno, in modo radicalmente diverso dalla Divina Commedia, anche se per certi bizzarri aspetti rispettoso dell'originale.
Qui, nel fumetto, Dante è un poeta-guerriero che, per salvare l'amata Beatrice finita per colpa sua tra le braccia del Diavolo, non esita a irrompere nei gironi infernali, tra la perduta gente.
I volumi sono scritti con intelligenza da Christos Gage e illustrati con gusto da Diego Latorre che rende magnificamente le atmosfere dell'Aldilà.
Esemplari Caronte, Minosse, i bambini del Limbo, l'eros tra i giovani Dante e Beatrice.
Per tre euro, vale la pena: magari non vi piacerà. Ma se amate Dante e la Divina Commedia, provate a superare lo shock iniziale: magari vi accorgerete che (in fondo) c'è più rispetto per il Sommo Poeta in questa specie di appassionato sacrilegio a fumetti che in troppe, fredde e barbose lezioni scolastiche.
Scritto alle 09:39 nella letture | Permalink | Commenti (14) | TrackBack (0)
Da tempo sentivo parlare di lui come di un grande talento della letteratura umoristica.
Così ieri mi sono procurato un libro dell'americano David Sedaris
e, di sera, ho cominciato a leggerlo.
Dopo una ventina di pagine, dato che non avevo nessunissimo stimolo di risate nè di sorriso ma solo un crescente senso di noia e di irritazione, mi sono alzato dal letto per andare in salotto a prendere un volume (uno qualsiasi) di Achille Campanile.
M'è capitato "Vite degli uomini illustri", ho letto gli episodi con Cornelio Nipote, Socrate, Torquato Tasso, Cristoforo Colombo, Giacomo Casanova e il generale romano.
Se ci ripenso, rido ancora.
Se invece ripenso ai (pochi) euro buttati via per il libro di Sedaris, mi do del gonzo.
Ma (appunto) Sedaris è un bluff, mentre Campanile era un genio.
Scritto alle 20:44 nella Auto-lezioni, coppia, letture, Libri, persone, salute | Permalink | Commenti (30) | TrackBack (0)
"Le ideologie sono ormai superate. Destra e sinistra, tutti assieme, almeno per un anno prendiamoci una pausa. Non leggiamo più per un po' Camilleri, Tomasi di Lampedusa o Sciascia perché sono una sorta di sfiga nei confronti della Sicilia. Ci vuole ottimismo".
Chi ha detto questa cretinata?
E' stato il neo-assessore alla Formazione della Regione Sicilia, Mario Centorrino, economista e docente all'università di Messina, iscritto al Pd, intervenendo a Siracusa agli Stati generali dell'autonomia.
Curioso che questo Fenomeno
il 1 ottobre 2008 avesse scritto su Repubblica un articolo di (giustissima) critica al dissennato progetto di un rigassificatore nella Valle dei Templi di Agrigento.
E che avesse citato proprio Camilleri a sostegno delle proprie posizioni.
Scritto alle 18:58 nella attualità, banalità, letture, persone, politica, scuola e università | Permalink | Commenti (3) | TrackBack (0)
Vi presento una persona strana che vale molto.
Si chiama Ugo Pierri,
abita a Trieste, ha settantatre anni, usa vari pseudonimi, si definisce "pittore inediale, poeta espressionista-crepuscolare e scrittore di racconti non più in voga".
Ha disseminato in giro per l'Italia centinaia (o migliaia?) di quadri, disegni e illustrazioni.
Ha pubblicato decine di libri.
Di poesia (spesso satiriche, molte in dialetto triestino).
Di narrativa (la raccolta appena uscita si intitola I like Vincent Price ed è dedicata a una delle passioni di Ugo: l'attore horror Vincent Price, brevi fulminanti raccontini di humour nerissimo). Ma in altri libri mescola invenzione e storie autobiografiche, in un pastiche esilarante e straziante.
Di illustrazioni, tra cui un meraviglioso Pinocchio.
Da anni dirige, scrive, illustra, stampa e diffonde una rivista semiclandestina (Ossetia, arrivata oltre il numero 500) che fa incazzare molti triestini potenti.
Una delle sue autobiografie comincia così:
"Nasce a Trieste, in una portineria di via Canova al numero civico 26.
Da una sartina e da un medico, belli e sani, che in giovane età colpiti dalla tisi lo lasciano orfano in mano alla famiglia materna, quella della sartina.
La famiglia del padre, stirpe di magistrati e avvocati, ha altro da pensare e per raggiunti limiti di età e per paura del terrore slavo il nonno, primo presidente della Corte d'appello, si trasferisce al Sud donde era venuto.
La famiglia materna è un gruppo ben affiatato che litiga in continuazione. La nonna è una fervente cattolica, il nonno è un singolare bestemmiatore, ma calzolaio di vaglia. Sarà lui a fabbricare le prime scarpe di calcio, su misura!, per il nostro artista. Zio Carlo, meccanico d'auto, è un alcolista nominato e conosciuto in tutto il rione. Gli basta un bicchiere per partire. Le zie, che pur condividendo la stanza col nipote non si rivolgono la parola da anni anni, hanno caratteri del tutto diversi. Pierina è una sgobbona, in fabbrica e in casa. Annamaria, amante dei sogni, sempre in attesa del principe azzurro è impiegata al Genio Civile. Curano al meglio il bambino. Ma è probabilmente zia Elena, la figlia del primo presidente, di per sé intrigante e spesso senza ritegno, che, con la sua vivacità napoletana e il suo ramo ben radicato di follia, influirà maggiormente sulla formazione del nostro orfano.
La portineria è un antro ricco di sorprese. Nonostante la serena indigenza non manca niente. Ci sono addirittura due cessi, uno fornito di doccia sul muro di fondo del quale spicca un disegno del giovane Pierri: un poderoso sedere portante."
Scritto alle 22:40 nella letture, Libri, persone | Permalink | Commenti (4) | TrackBack (0)
Che paese siamo.
Spietati con qualcuno, bonaccioni con qualcun altro.
Ieri hanno arrestato a Roma un cinquantatreenne che in una libreria di via del Corso cercava di rubare diciassette libri di Georges Simenon con protagonista il commissario Jules Maigret.
Gli addetti alla vigilanza l'hanno beccato e chiamato i carabinieri: arrestato.
Centocinquanta euro di refurtiva, furto aggravato, presto il processo per direttissima.
Cesare Previti: condannato in via definitiva per aver corrotto giudici.
L'Ordine degli avvocati di Roma non l'ha ancora espulso.
Scritto alle 13:30 nella attualità, letture, Libri, persone | Permalink | Commenti (9) | TrackBack (0)
Dal numero 667, uscito in questi giorni, collaboro al Mucchio Selvaggio.
La più bella rivista italiana di musica rock (e non solo).
Stavolta, parlo del concerto londinese di Ray Davies e di Jimmy Corrigan (il mio libro del 2009).
Il prossimo mese, scriverò della storia a fumetti di Neil Gaiman su Batman (sessanta pagine di grandissimo livello narrativo: attorno alla bara di Batman si riuniscono i suoi amici e nemici.
Ognuno di loro racconta la propria versione della sua misteriosa morte. La verità finale salda tutti i fili dell'esistenza del Cavaliere Oscuro, dalla sua infanzia alla sua maturità, con tutta la brillantezza lirica e fantastica tipica dell'arte di Gaiman).
Scritto alle 21:06 nella letture, Musica | Permalink | Commenti (11) | TrackBack (0)
Per me è questione di proporzioni: se Salinger fosse un autore dimenticato e sconosciuto che io scovassi per caso su una bancarella dell'usato e spinto dalla curiosità comprassi Il giovane Holden per tre o quattro euro e poi lo leggessi, magari ne resterei colpito e ne parlerei con qualcuno.
Ma questa immensa fama e culto che circonda Salinger e i suoi libri mi pare davvero esagerata.
Per dire...un romanzo come Comma 22 (del 1961) è assai meno celebre del Giovane Holden (del 1951) ma lo surclassa.
E poi Il lungo addio di Chandler è del 1953, L'arpa d'erba di Truman Capote del 1951, l'immenso Lolita di Vladimir Nabokov del 1955, Il nudo e il morto di Norman Mailer è del 1948, Il migliore di Bernard Malamud è del 1952, Io sono leggenda di Richard Matheson è del 1954...
Scritto alle 19:45 nella adolescenti, domande, letture, Libri | Permalink | Commenti (44) | TrackBack (0)
Ci torno dopo qualche anno.
Fu il primo libro del cileno Roberto Bolano che mi capitò di aprire e fu un amore a prima lettura.
Lui era nato nel 1953 a Santiago e, dopo il golpe fascista del 1973, venne arrestato, ma rocambolescamente ce la fece a scappare e visse da esule in Spagna.
Mille e un mestieri: commesso, vendemmiatore stagionale, custode in un campeggio estivo.
E scriveva, scriveva, scriveva: romanzi, racconti, saggi, articoli, poesie.
Pian piano qualcuno cominciava a conoscerlo:
La pista di ghiaccio, La letteratura nazista in America, Chiamate telefoniche, Notturno cileno, Puttane assassine, Un romanzetto canaglia.
Poi uscì I detective selvaggi , l'inizio della sua leggenda.
Prendete le misteriose geometrie di Borges e le carnali complessità di Cortazar, aggiungete la tragicomica incoscienza di un io narrante come il diciassettenne poeta realvisceralista Juan Garcia Madero, metteteci la malinconia degli esuli e la disperata allegria del tango, unite la furia della politica che sta dalla parte degli ultimi, impastate con umorismo, sesso, romanticismo e piacere di raccontare: avrete solo una pallida idea di questo labirintico romanzo di 843 pagine che si vorrebbe fossero tante e tante di più.
Così come si vorrebbe che Bolano fosse ancora tra noi. Ma attorno al 1998 si ammalò gravemente e cominciò a sperare in un trapianto per il suo fegato malandato.
Intanto scriveva, scriveva, scriveva: romanzi, racconti, saggi, articoli, poesie.
E il successo arrivò.
Ma il 14 luglio 2003, Roberto morì.
Sempre in attesa di quello stramaledetto trapianto.
Che non arrivò mai.
Tra ieri sera e oggi, ho riletto una cinquantina di pagine dei Detective selvaggi e di nuovo me la sto godendo alla grande.
L'unica cosa che mi disturba è sapere che, tra circa ottocento pagine, il libro finirà.
Scritto alle 22:51 nella letture, Libri, Musica, persone | Permalink | Commenti (16) | TrackBack (0)
Ieri sera, aprendo un pacchetto arrivato con la posta, ho provato una delle più grandi emozioni della mia vita di lettore.
Pochi giorni fa, avevo finalmente rintracciato in una libreria francese e a un prezzo eccezionale (15 euro più cinque di spese di spedizione) il primo volume dell'edizione Salani (1935) della serie di Fantomas.
E ho potuto tenerlo tra le mani.
Uscita in Francia tra il 1911 e il 1913, trentadue romanzi stupefacenti e amatissimi da Ejsenstein e Magritte, Kurt Weil e Antonin Artaud, Cocteau e Cortazar, surrealisti e Umberto Eco, è una saga che non ha uguali nella storia della letteratura: sgangherata perchè scritta con ritmi da forzati da Pierre Souvestre e Marcelle Allain (trecento pagine al mese dettate alle dattilografe, senza nemmeno rileggerle, l'uno all'insaputa dell'altro dopo aver deciso la trama ed essersi divisi i capitoli tirando a sorte), una miscela di poliziesco e romanzo d'appendice, affresco sociale e truculenze, squarci di delirante poesia e macroscopiche incongruenze.
Leggere queste migliaia e migliaia di pagine significa entrare in un mondo parallelo e coloratissimo: seguire lo spietato criminale Fantomas e i due uomini che gli danno la caccia (il poliziotto Juve e il giornalista Fandor) in un territorio immenso, tra centinaia di personaggi e di ambienti. Nobiltà francese che sta per scomparire alla vigilia della Prima guerra mondiale, bassifondi parigini che formicolano di delinquenti (i cosiddetti apaches), proletariato e piccola borghesia, donne perdute e magistrati corrotti, boia e corse di cavalli, circhi e investigatori americani, episodi ambientati nella Russia zarista e nel Sudafrica dei diamanti, nella Montecarlo dei casinò o in Messico, nelle nevi svizzere o negli orribili manicomi di cent'anni fa, delitti misteriosi, muri che grondano sangue e cadaveri giganti, fontane che sembrano cantare e treni che scompaiono, morti che paiono resuscitare e spaventose stragi, omicidi situazionisti, gag degne dei fratelli Marx e amori romanticissimi.
Fino alla epica conclusione che, nell'ultimo romanzo, chiude le fila della saga con una rivelazione pazzesca ma a suo modo logica.
In Francia, il successo fu enorme ed epocale: i libri vendevano centinaia di migliaia di copie, Louis Feuillade ne trasse cinque splendidi film muti, i surrealisti elessero Fantomas come simbolo della libera fantasia, molti intellettuali si innamorarono perdutamente di quei bizzarri libri, zeppi di giganteschi difetti ma anche di straordinari gioielli.
In Italia, la Salani tradusse i 32 Fantomas subito, negli anni Dieci, per poi ristamparli negli anni Trenta, in edizioni integrali.
Li fece ritornare in edicola la Mondadori negli anni Sessanta con le stupende copertine
di Karel Thole ma un grave difetto: traduzioni mutilate, ridotte alla metà degli originali.
Ho letto la prima volta il ciclo quando avevo più o meno vent'anni nella versione Mondadori, comprata volumetto dopo volumetto, in una emozionante caccia al tesoro, nelle bancarelle dell'usato.
E a quel tempo (in previsione di un libro su Fantomas) cominciai a prendere appunti.
Poi, nel corso degli anni, rilessi alcuni romanzi.
Più tardi, nel '95, io e Tatjana ci siamo fatti una sbornia fantomasiana: in un paio di mesi, un libro dopo l'altro, con un senso di ebbra, misteriosa pienezza.
Intanto, pian piano, tra molte difficoltà, cercavo di procurarmi anche i volumi Salani: a tutt'oggi ne ho raccolti 27 su 32.
Nel frattempo, andavo avanti con i miei appunti, ormai arrivati a oltre cento pagine fitte fitte.
E mi convincevo sempre più di due cose.
La prima: poche letture al mondo possono diventare appaganti e intossicanti come l'epopea di Fantomas.
La seconda: a loro modo, con gli strumenti della narrativa popolare e con i ritmi della catena di montaggio editoriale, Souvestre e Allain seppero presagire e raccontare in maniera medianica la crisi dell'Europa che precipitava verso la crisi della dissoluzione, nel baratro della mostruosa carneficina '14-'18 e poi verso il nazifascismo. In questo senso, Fantomas rappresenta l'anticipazione di quegli orrori che stavano arrivando per spazzar via un'intero modo di vivere.
E ieri ho finalmente avuto tra le mani il volume iniziale e ho finalmente visto dal vivo e toccato con le mie dita la tanto favoleggiata copertina, con quell'immagine dell'uomo pallido e allucinato che incombe su Parigi e sull'Europa stringendo nella mano destra un pugnale insanguinato.
E' tempo di ricominciare a divorare dall'inizio le sue avventure, con quell'incipit indimenticabile, brutto ma sensazionale, rozzo ma geniale.
CAPITOLO I: IL GENIO DEL DELITTO- Fantomas!
- Come dite?
- Fantomas!
- Che significa?
- Niente...e tutto!
- Ma pure, chi è?
- Nessuno...e tuttavia qualcuno!
- Insomma, che fa questo qualcuno?
- Fa paura!!!
Finito il pranzo, si passò nella sala.
La marchesa di Lagrune, andando in fretta verso il caminetto, prese da un paniere un ciocco e lo gettò sulla brace ardente. Il ciocco crepitò, la sua fiamma illuminò la sala d'una gran luce chiara, e istintivamente gli invitati della marchesa si avvicinarono al fuoco. Da tempo immemorabile, durante i dieci mesi consecutivi che ella passava ogni anno nel suo castello di Beaulieu, al settentrione del dipartimento di Lof, confinante con la Corrèze, in quella pittoresca regione circondata dalla Dordogne...
Un piccolo esempio delle traduzioni mutilate presenti nell'edizione Mondadori, tratti dal primo volume che venne intitolato Il terrore mascherato, rielaborazione dell'originale Fantomas.
Nel capitolo iniziale, il magistrato Bonnet racconta agli altri invitati al castello Lagrune la sparizione di lord Beltham, la attribuisce al misterioso Fantomas e la inquadra nell'insieme di una grave situazione criminale. Alla discussione assiste il diciottenne Charles Rambert (che nel seguito del ciclo fantomasiano sarà..non vi dico in quale ruolo...un assoluto protagonista): il giovane è affascinato da Fantomas e il suo entusiasmo scandalizza il giudice. Che tra l'altro gli dice: "Ecco il prodotto dell'educazione moderna, dello stato d'animo creato dal giornalismo, dalla letteratura, nella nostra gioventù! Si fa un'aureola ai delinquenti; s'improvvisa loro una pubblicità fantastica! E' roba da far rizzare i capelli! Voi siete pazzo, ragazzo mio! Mettete sullo stesso piano gli assassini e i poliziotti, non fate distinzione fra il bene e il male. All'occasione, voi erigereste sullo stesso piedistallo gli eroi del delitto e gli eroi della difesa sociale! Voi avete molta immaginazione, giovanotto, troppa, direi. Ma passerà. Siete ancora nell'età in cui si parla senza sapere"
Più tardi, a letto, Charles stenta a dormire perchè continua a fantasticare su Fantomas.
La scena è importante per vari motivi: tutto il ciclo di Fantomas è percorso da fermenti dirompenti, inquietanti e antiborghesi.
Che si inquadrano nel clima della Francia dei primi anni del Novecento, agitata da un forte illegalismo: criminali veri e propri o anarchici come quelli della banda dei Travalleuirs de la Nuit o della banda Bonnot.
Inoltre, uno dei due autori (Marcelle Allain) aveva forti simpatie per la causa del progresso sociale e per i socialisti, e queste posizioni traspaiono in innumerevoli parti della saga. Anche se va ribadito che il ciclo di Fantomas è e resta un'opera d'appendice, per quanto degna di perduto amore.
Ma torno a quel primo capitolo, sconciato nella versione Mondadori: purtroppo, la traduzione di Roberto Mauro del 1963 accorcia pesantemente il dialogo tra il magistrato Bonnet e Charles Rambert, mettendo così il silenziatore alla fascinazione del giovane verso Fantomas.
L'effetto è triplice: il massacro del testo originale, il trionfo di un ipocrita perbenismo, il rischio di non capire la successiva evoluzione del personaggio di Charles.
In realtà, la versione Mondadori ricalca abbastanza pedissequamente l'edizione Pagotto di Milano che nel 1954 ritradusse (mutilandoli) i primi cinque romanzi del ciclo. Iniziò lì, dopo l'ottimo lavoro svolto dalla Salani, lo scempio dell'opera di Souvestre-Allain.
Non si trattano così i capolavori.
Nel 2009, a Bologna, c'è stata una mostra collettiva dove vari artisti hanno esposto la loro visione del personaggio di Fantomas, che ha ispirato il nome del locale, il Fantomars.
Tutti i pittori invitati danno, infatti, una interpretazione personale della più famosa tra le interpretazioni del malvagio eroe, quella di Magritte nel quadro Il ritorno di fiamma del 1943
Ideata da Giovanni Monti, l'esposizione ha visto fra le altre opere di Francesca Anita Modotti, Daniele Pezzoli, Valerio De Filippis ed Emilia Badalà.
Info: [email protected]
Web: www.fantomars.jimdo.com
Autoscatto di Magritte accanto alla sua opera, purtroppo scomparsa Le barbare
"Fantomas non è più il pretesto di una storia; la storia è al suo servizio. Le opere di Fantomas non possono essere distrutte nè subire modifiche (...) Fantomas esige più dagli altri che da se stesso. Egli non è mai visibile per intero: si può vedere il suo ritratto attraverso il suo volto. Quando è perseguitato dai ricordi, segue il suo braccio che lo trascina. Si muove come un automa, sposta i mobili o i muri che si frappongono sul suo cammino (...) La scienza di Fantomas è più preziosa
della parola. Non la si indovina e non si può dubitare della sua potenza"
(Magritte)
Magritte incontra per la prima volta Fantomas in un manifesto cinematografico nel 1913, se ne ricorderà e ne dipingerà il volto nel 1927.
Quel ritratto può essere considerato l'alter ego di Magritte: un "eroe" trasversale in romanzi, pellicole cinematografiche e fumetti, che incarna la trasgressione di ogni regola borghese, l' "eroe" della città, della notte, onnipresente. E' crudele e accorto, delinquente sfrenato e allo stesso tempo meticoloso. In lui convive ogni possibile contraddizione senza schizofrenie di alcuna sorta. Sfida il mistero della realtà con i suoi agguati e sembra vivere in una dimensione esistenziale in cui non c'è nessuna regola, se non quella di portare a termine nel miglior modo possibile il proprio gioco.
In Fantomas, Magritte vede la possibilità di sfuttare una mitologia costituita da fatti, cronaca quotidiana e clamorose imprese. E, attraverso lo scardinamento del velo della tranquilla e borghese quotidianità, la possibilità di raggiungere una dimensione del mistero che non è più quella desolata delle piazze di De Chirico, ma che vive in ogni cosa intorno a noi.
Fantomas è il mistero e i suoi agguati non possono che ripetersi all'infinito: il mistero può infatti assumere qualsiasi forma ed è capace (come l'arte contemporanea) di riprodursi e riproporsi. Fantomas, inoltre, torna sempre sul luogo del delitto. Allo stesso modo Magritte ritorna sui suoi quadri, sui temi a lui più cari, senza per questo risultare mai ripetitivo, a differenza di molti altri artisti accusati di esserlo e di essere troppo spesso rifacitori di se stessi.
Il testo su Magritte l'ho preso da questo sito: http://www.liceolocarno.ch/Liceo_di_Locarno/materie/storia_arte/magritte/surrealismo_magritte.html
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Lo fece più volte.
In particolare nel Vangelo di Matteo (25, 35-46), con un'attualità sconvolgente che ci chiama tutti in causa.
"Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, fui straniero e mi accoglieste, fui nudo e mi vestiste, fui infermo e mi visitaste, fui in prigione e veniste a trovarmi".
Allora i giusti gli risponderanno, dicendo: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare? O assetato e ti abbiamo dato da bere? E quando ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo ospitato? O nudo e ti abbiamo rivestito? E quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a visitarti?"
E il Signore, rispondendo, dirà loro: "In verità vi dico: tutte le volte che l'avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l'avete fatto a me".
Allora Egli dirà ancora a coloro che saranno a sinistra: "Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Poiché ebbi fame e non mi deste da mangiare, ebbi sete e non mi deste da bere, fui straniero e non mi accoglieste, nudo e non mi rivestiste, malato e in prigione e non mi visitaste".
Allora anche questi gli risponderanno, dicendo: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato, o assetato, o straniero, o nudo, o malato, o in prigione e non ti abbiamo soccorso?".
Allora Egli risponderà loro dicendo: "In verità vi dico: tutte le volte che non l'avete fatto a uno di questi minimi fratelli, non l'avete fatto neppure a me".
Scritto alle 09:10 nella attualità, diritti, letture, persone, Religione | Permalink | Commenti (19) | TrackBack (0)
Sono in pochi, in Italia, ad avere la lucidità di pensiero e di scrittura di
Barbara Spinelli, saggista e opinionista della Stampa di Torino.
Oggi, sul fatto Quotidiano, c'è una sua lunga e allarmata intervista fortemente critica verso il regime berlusconiano e verso i "diversamente concordi" del Pd.
Quella intera pagina vale ampiamente, da sola, la spesa dell'euro e venti.
In più, c'è un'altra pagina odierna che vi segnalo: quella dedicata al grande regista Dino Risi, arricchita da molti suoi esilaranti aforismi, battute e incazzature.
Una per tutte.
Nel 1974, il suo film Profumo di donna mancò per un soffio l'Oscar per il miglio film straniero. Dino ne fu informato da un giornalista che gli chiese: "Cosa si prova, Risi, a sfiorare il traguardo?"
"Voglia di prendere a calci in culo un giornalista che ti sveglia alle sei del mattino per anticipartelo"
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Ecco il mio intervento al Convegno Internazionale “Identità, genere e dis-uguaglianze” dell'altro giorno.
L'autoironia e la scrittura come antidoto contro l'emarginazione - Tre minoranze: adolescenti, ebrei e protestanti
Il mio pastore valdese Enos Mannelli dice spesso: “Il Signore ci dia la fede, ma ci scampi e liberi dalle religioni”.
Un teologo protestante scrisse: “Io diffido delle fedi che non dubitano e sorridono di sé stesse”
E allora, vorrei cominciare con una barzelletta semi-blasfema che ho sentito raccontare in ambiente valdese.
Gesù sta predicando, quando una folla inferocita gli porta una giovane adultera che dev’esser lapidata. E gli uomini gli domandano di giudicarla anche lui.
Gesù si mette a scrivere qualcosa per terra, poi pronuncia le famose parole: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”
Dalla folla esce una donna che gli porge una grossa pietra dicendogli: “Ecco. Tu che sei senza peccato puoi tirarla”
Al che, Gesù sbotta: “Mamma! Ti ho sempre detto di startene a casa quando lavoro!”
Io ho la barba lunga e arruffata.
Pensate che non c’entra col tema del convegno?
Non c’entra però c’entra.
Vi racconto perchè: ho cominciato a farla crescere appena mi sono spuntati i primi peli post-adolescenziali. Diventavo rosso con imbarazzante facilità e la barbuzza mimetizzava la vergogna. Inoltre, la barbetta aumentava le possibilità di entrare al cinema dove proiettavano film vietati ai minori.
Adesso questi problemi non li ho più.
E allora perché continuo ad avere la barba?
Perché fa parte di me e la mattina, quando mi guardo allo specchio e vedo la barba tutta storta e spettinata, accade un piccolo miracolo: mi faccio ridere da solo.
E cominciare la giornata ridendo di me stesso, è un buon inizio.
Freud scrisse: L’umorismo non è rassegnato ma ribelle, il trionfo dell’io e del principio di piacere, che si afferma contro le avversità delle circostanze reali.
Ma per aver diritto di ridere degli altri e dell’intero mondo, dobbiamo prima di tutto guardarci in faccia e sorridere o sghignazzare di noi stessi e del nostro modo di essere.
Si può imparare?
E come?
E da chi?
Per secoli il popolo ebraico fu diffamato, perseguitato, disprezzato e massacrato. Eppure, gli ebrei hanno trovato la forza e l’intelligenza di ridere, prima di tutto di sé stessi.
Anche la Bibbia, a leggerla con attenzione, è ricca di humour.
Ricorderò solo un passo, tratto dalla Genesi (18, 22-32), quando Dio sta per annientare la città di Sodoma e Abramo interviene, contrattando con Dio.
Sentiamo le parole di Abramo: Davvero tu vuoi distruggere insieme il colpevole e l’innocente? Forse in quella città ci sono cinquanta innocenti. Davvero tu li vuoi far morire? Perché invece non perdoni quella città per amore di quei cinquanta?
Dio acconsente: se troverà i cinquanta, Sodoma sarà salva.
Ma Abramo insiste.
Proprio come se fosse in un mercato levantino ad abbassare il prezzo del peperoncino e della curcuma: Ecco, io oso parlare al Signore anche se sono soltanto un povero mortale. Può darsi che invece di cinquanta ve ne siano cinque di meno. E tu, per cinque di meno, distruggeresti tutta la città?
Ancora una volta, Dio accetta.
E di nuovo Abramo torna alla carica: Può darsi che ce ne siano solo quaranta.
Dio risponde: Io non la distruggerò per amore di quei quaranta.
Non citerò tutto l’episodio, ma Abramo va avanti, sempre al ribasso: trenta, poi venti, infine dieci innocenti.
Rispettosamente dice: Non offenderti, mio Signore...Insisto ancora, Signore… Non adirarti, Signore. Rispettosamente, molto rispettosamente, ma intanto tira la corda.
Come gli adolescenti con papà o mamma.
E’ un esempio, ma se ne possono raccontare a decine, di passi umoristici della Bibbia.
E un’antologia di libri o film sull’umorismo ebraico occuperebbe intere biblioteche e cineteche.
Forse, il popolo ebraico è sopravvissuto alla sua tragica storia anche grazie al senso del comico, ironia e autoironia.
E al proprio Libro.
Come i protestanti italiani, in particolare i valdesi.
Altra minoranza perseguitata per secoli: roghi, crociate e massacri.
Eppure siamo sopravvissuti.
Anche noi aggrappati a un Libro, la Bibbia, all’alfabetizzazione diffusa, alla scrittura. E alla nostra autoironia.
Recenti saggi come
Valdesi d’Italia - Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtùoppure
Perchè non possiamo fare a meno di ridere... e meno che mai della religione
o ancora siti web quali
Il peccato
ridono soprattutto di noi valdesi.
E come insegna lo scrittore israeliano Amos Oz, l’autoironia è il peggior nemico del fanatismo.
Io penso che l’autoironia nasca dall'incrocio di varie esigenze:
raccontare sè stessi (“mi metto in scena o sulla carta per descrivermi e capirmi meglio”),
difesa ("se io sono capace di ridere di me, non mi turba o comunque mi turba di meno che lo faccia anche tu"),
esorcizzare i problemi ("se ci rido su, mi fa meno male o meno paura"),
voglia di condividere il piacere ("se io e te ridiamo insieme di me, abbiamo qualcosa di piacevole in comune").
Vi è un altro gruppo di persone che vive una condizione difficile: persone che bene o male sopravvivono, ma senza possedere né ironia né autoironia.
E nemmeno un Libro a cui abbeverarsi.
Anche se poi consumano Harry Potter, Twilight o il polistirolo di Federico Moccia.
Sono la minoranza degli adolescenti.
Anni fa, venne chiesto a ventimila ragazzine e ragazzini: quando ti guardi allo specchio, cosa vedi?
La maggioranza diede una risposta che deve far riflettere.
Dissero: vedo un mostro.
Non so per voi, ma per me era un’età difficile: il mio corpo si trasformava e quei cambiamenti non li capivo. Ero confuso: un tumulto di vergogne e imbarazzi, desideri e paure.
Anche adesso, a volte, mi capita di sentirmi così.
Ma sono adulto e ho scoperto alcuni antidoti.
Antidoti che da ragazzino ignoravo.
Appunto: la fede e la scrittura.
Soprattutto l’autoironia, sguardo che ride di me e delle mie contraddizioni: un talismano prezioso.
Ma di solito gli adolescenti non l’hanno ancora trovato. E forse addirittura ignorano che esista.
Come aiutarli a entrarne in possesso?
Non ho la risposta magica in tasca.
Però provo a darne una. Anche se non certo magica.
Io scrivo romanzi per adolescenti e, secondo me, nei libri per ragazzi non si deve ridere degli adolescenti, bensì con gli adolescenti.
Il mio protagonista è il tredicenne Michele Crismani, che scrive in prima persona, come io narrante.
Quando scrivo le storie con lui, faccio buio nella mia mente e lascio che sia lui, Michele, a raccontare.
Con lui, cerco di guardare il mondo con gli occhi di un adolescente.
Il critico Roberto Denti ha definito Michele Crismani “un adolescente con diritto di mugugno”.
E’ una definizione che mi lusinga: spero che Michele faccia ridere gli adolescenti perché si riconoscono in lui e nel suo sguardo sul mondo, uno sguardo criticone e confuso.
Credo sia ingiusto sbeffeggiare i ragazzini sentendosi superiori.
Così come credo sia ancor più ingiusto fingere di compiacerli per conquistarne la benevolenza.
Raccontando le storie di Michele, tento di offrire agli adolescenti un personaggio in cui possano riconoscersi. Uno specchio in cui guardare sé stessi. Sbirciando i propri difetti e i propri limiti, ma anche le proprie qualità.
E se ridono insieme a Michele per le sue fissazioni, i suoi impacci e i suoi slanci, le sue pigrizie e vergogne, le sue bugie e megalomanie, insomma per la sua vita, forse possono trovare lo slancio per ridere anche di sé stessi, dei propri impacci slanci pigrizie vergogne bugie megalomanie.
E pian piano imparare acquistare fiducia e senso critico.
Avevamo lasciato Abramo che si ferma a dieci innocenti.
Ma Dio non trova nemmeno quelli e così distrugge l’intera Sodoma, dopo aver permesso a Lot, sua moglie e le loro due figlie, di salvarsi.
Mi faccio spesso una domanda, non so se più teologica, filosofica o umoristica:
nella trattativa con Dio, Abramo fin dove poteva arrivare?
Vi saluto con la Beatitudine che preferisco.
E’ tratta dal Vangelo di Luca (6,21) e prefigura una splendida Vita Eterna:
“Beati voi, che ora piangete, perché riderete”
Scritto alle 21:12 nella letture, Religione, salute | Permalink | Commenti (16) | TrackBack (0)
Provate a legger la Bibbia: ne vale la pena.
Ricordando che leggerla nella Roma papalina era un reato penale fino al 20 settembre 1870, quando finalmente arrivarono i bersaglieri del Regno d'Italia e le prime Bibbie tradotte le portarono i valdesi.
Per la mia fede, la Bibbia è indispensabile come l'acqua: così mi avvicino ogni giorno alla sua parola.
E ieri ne ho ripreso ancora una volta la lettura sistematica e quotidiana.
Quando propongo ad altri lo stesso viaggio, suggerisco il medesimo itinerario: non da cima a fondo, cominciando dall'inzio e procedendo in ordine rigoroso, dal primo capitolo della Genesi fino al ventiduesimo della Rivelazione-Apocalisse. Perchè questo cammino lineare significherebbe il naufragio: ben presto, il viandante-lettore inesperto dovrebbe affrontare per giorni e giorni il paesaggio arido e obiettivamente noioso di libri come Numeri e Deuteronomio. Chi legge verrebbe assalito dallo sconforto, smarrendosi e lasciando perdere l'impresa.
Peccato: perchè più avanti, superati quei deserti legalistici, la Bibbia offre (anche a chi non è credente) paesaggi straordinari: la forza eversiva dei profeti Isaia e Geremia (non a caso mai letti nelle chiese cattoliche), il Qohelet/Ecclesiaste (aspra e corroborante meditazione laica sul senso della vita), il possente Giobbe (su cui da secoli e secoli si interrogano intellettuali e filosofi), il caldo erotismo del Cantico dei Cantici, l'irruzione di Gesù Cristo e dei Vangeli nella storia del'umanità, le profonde riflessioni di Paolo sul peccato che influenzano l'intero Occidente e prefigurano quelle di Freud sull'inconscio...
Riporto solo un esempio (i versetti 2-8 dal capitolo 3 del Qohelet/Ecclesiaste):
2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace
E basta prendere in mano, sfogliare e leggiucchiare a caso la Holy Bible di King James (la classica versione inglese) per capire quanta letteratura, musica, cinema anglo-americani siano intrisi di ritmo, metafore e linguaggio biblico.
Per leggerla tutta quanta in un anno, ecco il semplicissimo e utile "programmino": (http://www.laparola.net/letture.php).
Sempre in questo sito protestante:
http://www.laparola.net/mailing_list.php#letture
ci si può iscrivere alla mailing list per ricevere ogni giorno le quattro letture bibliche.
Una tratta dai libri "storici", una dagli "scritti", una dai "profeti", una dal "Nuovo Testamento"
Scritto alle 09:08 nella letture, Libri, Religione | Permalink | Commenti (7) | TrackBack (0)
Sul Corriere della Sera compare una lettera del Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi.
Ve la riporto di seguito, con la breve replica del critico cinematografico Paolo Mereghetti.
Visto il faticosissimo italiano e la traballante sintassi utilizzata dal ministro (che tra l'altro, dimostrando di non sapere nemmeno di cos'è ministro, si firma "della cultura" e non "per i Beni e le Attività Culturali") la domanda è:
queste lettere le partorisce da solo oppure se le fa scrivere da qualche funzionario?
Comunque, ecco il testo:
Gentile Direttore,
nei giorni prima di Natale il Corriere della Sera ha concentrato l’attenzione su una questione, quella riguardante il cosiddetto cinepanettone, su cui vale la pena soffermarsi. Anche perché Galli della Loggia ha opportunamente sottolineato il paradosso che un film del genere, «pieno di volgarità», possa ottenere benefici economici dal Ministero per i Beni e le Attività culturali.
Sgomberato il campo dall’erronea notizia della concessione a tale genere di film del riconoscimento di film di interesse culturale, tuttavia una questione esiste e non intendo ignorarla. Anzi, il pungolo di un quotidiano come il Corriere della Sera e l’analisi di Galli della Loggia mi induce ad annunciare alcuni provvedimenti che intendo assumere.
Il cinema è uno snodo cruciale del rapporto tra lo Stato e il mondo della cultura. Il governo di cui faccio parte intende intervenire con proposte riformatrici anche in questo settore emblematico della visione della società e dei valori che devono orientare l’azione di una maggioranza politica liberale. Innanzitutto una premessa necessaria: dal Dopoguerra esiste una legge, varata da Giulio Andreotti, per la quale si riconosce automaticamente ad ogni film italiano un contributo sui biglietti staccati. Grazie a questa normativa in quegli anni, il nostro cinema è cresciuto, come fenomeno culturale, fino a diventare uno dei più acclamati al mondo, e di conseguenza è cresciuta l’industria cinematografica ad esso collegata. In un momento felice, la cultura senza cedimenti alla volgarità (pensiamo alla grande commedia italiana) ha incontrato il gusto del pubblico.
Certo, da liberale come Galli della Loggia ritengo che sia possibile e doveroso che lo Stato o le élites si occupino anche dell’elevazione culturale della nazione, senza tuttavia imporre un gusto o una propria ideologia. Ed è per questa ragione, per liberare progressivamente il cinema dalla politica, che ho introdotto un sistema di finanziamenti indiretti attraverso la defiscalizzazione dell’investimento (il tax credit e il tax shelter) e limiterò d’ora in avanti il finanziamento diretto, in conseguenza del riconosciuto valore culturale di un’opera cinematografica, solo alle opere prime, cioè solo ai giovani registi che hanno davvero bisogno di essere sostenuti all’inizio della loro carriera in ingresso al mercato.
Per quanto riguarda il caso del cinepanettone, bisogna innanzitutto ricordare che solitamente i proventi sostanziosi dei film commerciali vengono poi utilizzati, dai migliori produttori, per finanziare i film di qualità. Il film in questione, inoltre, non ha chiesto nessun contributo diretto allo Stato ma, si ribadisce, il mero riconoscimento per i requisiti di spettacolarità al fine di ottenere la possibilità di ottenere il credito di imposta così da poter reinvestire l’anno prossimo. Una commissione inoltre valuterà, dopo la visione della copia campione, se concedere o meno la qualifica di film d’essai (e questa è la sottolineatura di Mereghetti), qualifica che non porterebbe benefici all’impresa che lo ha prodotto, bensì agli esercenti che lo hanno programmato, sempre che gli esercenti siano tra le sale riconosciute d’essai. Quando venne varata la riforma della legge cinema (c.d. legge Urbani) fu proprio la Federazione Italiana del Cinema d’essai a chiedere che venissero introdotti degli automatismi per diminuire la discrezionalità di riconoscimento dell’amministrazione e consentire a loro stessi di programmare in anticipo l’attività delle sale.
Questo fu un passo avanti, ma ora occorre rivedere con maggiore precisione, sulla base di parametri inconfutabili, come per esempio la partecipazione ai festival internazionali, e non solo dietro la certificazione degli incassi effettuati o addirittura la composizione del cast, la ripartizione dei finanziamenti. Possiamo in conclusione trarre qualche insegnamento da questa vicenda e dalle giuste preoccupazioni sollevate da Galli della Loggia? Io penso di sì.
Innanzitutto, che sia necessario rivedere tutto il sistema del finanziamento statale al mondo della cultura e del cinema in particolare. Ho già anticipato alcune misure già assunte che garantiscono una maggiore autonomia della cultura dal predominio dello Stato e della politica (incentivi fiscali e finanziamenti solo alle opere prime). In questo quadro, un’ulteriore applicazione di nuovi criteri per accedere ai contributi automatici limiterà il contributo dello Stato alle sole opere di chiaro e riconosciuto valore culturale.
Con viva cordialità
Sandro Bondi
Ministro della Cultura
Che Natale a Beverly Hills abbia ottenuto la qualifica di «film d’interesse culturale» lo si legge sul sito ufficiale della Direzione generale per il cinema (sotto il link Attività/Produzione/Istanze presentate entro il 30/9/2009). Che la qualifica sarà quasi sicuramente confermata «dopo visione copia campione» lo si capisce dalla legge, che dà alla commissione la discrezionalità di attribuirla per meriti «artistici, culturali o spettacolari». Come verranno utilizzati «i proventi sostanziosi dei film commerciali» lo lasciamo dire ai loro produttori, ma che la qualifica di film d’interesse culturale comporti automaticamente anche quella di film d’essai lo dice sempre la legge. E un cinema d’essai, per legge, si definisce tale solo in base al numero di proiezioni che fa di film con la qualifica d’essai: se cinepanettoni e «simili» entrano in quel novero, anche la definizione di «cinema d’essai» cambia ovviamente significato.
(p.me.)
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Tanto per mettere qualche puntino su qualche i e non cancellare proprio tutta tutta la memoria.
Una piccolissima antologia di chi ha sempre abbassato i toni.
SILVIO BERLUSCONI, capo della destra, più volte presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana:
Ieri ha detto: “L’amore vince sempre sul’odio”
Prima ha detto:
“Io sono in politica perché il Bene prevalga sul Male”
Le invocazioni al “regicidio” per abbattere il governo Prodi.
“Coglioni” e “stupidi” quelli che non votano per lui.
A una signora di Rimini che lo contestava: “Lei ha una faccia da stronza”
“Se trovo chi ha scritto libri sulla mafia, giuro che lo strozzo”
“Matti, affetti da turbe psichiche, antropologicamente diversi dal resto della razza umana” i magistrati.
“Ci sono magistrati come la banda della Uno bianca”
“Golpisti” gli ultimi tre presidenti della Repubblica.
Fomentatori di “guerra civile” i giudici costituzionali e i pubblici ministeri di Milano e Palermo.
“Criminosi” Biagi, Santoro e Luttazzi.
“Il presidente Scalfaro è un serpente, un traditore, un golpista”
UMBERTO BOSSI, capo della Lega Nord, più volte ministro della Repubblica italiana:
“Senza la devolution, da qui possono partire ordini di attacco dal Nord”
“Trecentomila uomini armati dalle valli della Bergamasca”
“Oliare i kalashnikov”,
“Raddrizzare la schiena” (a un pubblico ministero con la poliomielite),
“Fucili e mitra”,
“Siamo veloci di mano e di pallottole che da noi costano trecento lire”.
IGNAZIO LA RUSSA, ministro della Repubblica italiana:
“Dovete morire” ai giudici europei della sentenza sul crocifisso.
CESARE PREVITI, ex-avvocato di Silvio Berlusconi, ex-ministro della Repubblica italiana, condannato in via definitiva per corruzione:
“Se vinciamo non faremo prigionieri” (prima delle elezioni del 1996, poi vinte dal centro-sinistra)
RENATO BRUNETTA, ministro della Repubblica italiana:
“Questa sinistra di merda”
“Morire ammazzata”
Scritto alle 09:16 nella attualità, letture, persone, politica, storia | Permalink | Commenti (80) | TrackBack (0)
Nel 1924, Piero Gobetti aveva ventitre anni.
(Morì a Parigi il 15 febbraio 1926, dopo essersi rifugiato in Francia con la moglie Ada,
a causa di persecuzioni e aggressioni fasciste subite a Torino)
Nel 1924 pubblicò il saggio Rivoluzione liberale in cui, per la prima volta, comparve la definizione del fascismo come "autobiografia della nazione".
Ottant'anni dopo, la stessa definizione ("autobiografia della nazione"), vale per il berlusconismo?
Scritto alle 10:04 nella attualità, letture, Libri, persone, politica, storia | Permalink | Commenti (15) | TrackBack (0)
Ieri ho visto Dan Brown a Che tempo che fa.
Parlava, oltre che del suo nuovo romanzo "Il simbolo perduto", anche della nuova scienza noetica della quale lui (inizialmente scettico) ha avuto inconfutabbbili (in-con-fu-ta-bbble) prove.
La noetica è 'na scenza mistico-'soterica fondata dar grande scribacchino 'merecano Dan Brown ner suo ultimo best e seller "Er simbolo perduto".
La coppprotagonista fimminile de questo novo libbro, che se chiama Katherine Solomon, è la principale esperta mundiale de 'sta disciplina sc-sc-sc-sc-scientifica. Che te permette, co' la sola forza de la mente tua e de l'amici tui, de trasformà la realtà che t'accirconna. 'Mazza che forza che c'avemo, ahò!
Dopo questo cazzaballe da centomilioni di copie, Fabio Fazio ha intervistato una persona seria, uno di quegli uomini che mi fanno sentir fiero di essere italiano, Gian Carlo Caselli.
Prima, sono andato in libreria a prendere il suo "Le due guerre - Perchè l'Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia".
Ne avevano due copie.
E una settantina der simbolo perduto.
Scritto alle 16:49 nella attualità, banalità, letture, Libri, persone, Scienza, Sistema mediatico, Televisione | Permalink | Commenti (26) | TrackBack (0)
Jimmy Corrigan è un capolavoro assoluto: se Philip Roth sapesse disegnare e avesse quarant'anni, forse realizzerebbe libri così.
Dicembre è, banalmente e pigramente, tempo di bilanci.
Da anni sono abituato a rivedere i mesi passati per "decidere" tra me e me i libri che m'hanno colpito di più, i concerti e le musiche, quali film.
Poi me li annoto in un grande taccuino.
A distanza di molti anni, rileggendo questi dati, la mia memoria trova l'aiuto di solidi ancoraggi per ricostruire il mio passato.
Qual'è il mio libro del 2009?
I canti del caos di Antonio Moresco? Patria di Enrico Deaglio? Lost girls di Alan Moore? Il gioco del trono di George R. Martin? Indignazione di Philip Roth? L'arte di correre di Haruki Murakami? Etica e politica di Norberto Bobbio?
No, il più bel libro che ho letto nel 2009 è senza ombra di dubbio Jilly Corrigan dell'americano Chris Ware.
E' uscito una settimana fa da Mondadori, costa 25 euro e sono circa quattrocento pagine.
Vi dico subito che è un romanzo a fumetti (il termine graphic novel mi ha rotto le scatole oltre ogni limite, usato e abusato in maniera indecente e spesso incompetente da cani e porchi).
Negli Usa, Jimmy Corrigan ha vinto premi su premi (sia nel campo fumettistico che letterario): li merita tutti.
Intanto la grafica.
Ve ne mostro due esempi.
E' una tavola che va letta con attenzione: solo così, attraverso piccoli ed eleganti dettagli, emerge il trascorrere degli anni.
Questa complessa tavola arriva più o meno a pagina trecento. E narra con una formidabile sintesi grafica la vita di un personaggio. Ma (su questo personaggio) non vi dico altro per non rovinarvi le sorprese.
Insomma, cos'è Jimmy Corrigan?
Tante cose, perchè vi si intrecciano numerose trame e sottotrame, a partire dalla fine del Diciannovesimo Secolo per arrivare ai giorni nostri.
Ma la vicenda principale è quella, appunto, di Jimmy Corrigan, un poveraccio di trentasei anni, solo, grassottello, brutto, infelice, oppresso da una madre ricoverata in una casa di riposo e che gli telefona di continuo.
Un giorno, a Jimmy arriva una lettera di suo padre, in allegato c'è un biglietto aereo e l'invito a raggiungerlo dall'altra parte degli Stati Uniti.
Ma Jimmy Corrigan non ha mai conosciuto suo papà: se n'era andato tanti, tanti anni prima. Ed è il responsabile dell'infelicità sua e di sua mamma.
Jimmy sale in aereo e parte alla ricerca del padre.
Non vi racconto altro.
Se non che il romanzo grafico è stupefacente: Chris Ware fonde momenti esilaranti ad altri di straziante lirismo, lunghi flash-back ambientati nel remoto passato delle precedenti generazioni della famiglia Corrigan ed episodi che sarebbero piaciuti a Raymond Carver, momenti onirici alla David Lynch e dolorose storie d'amore adolescenziale.
Bisogna leggere lentamente per non perdere un solo particolare: i dettagli sono importantissimi e i rimandi fitti e incessanti.
Finora, in Italia, di Chris Ware non era stato tradotto nulla: una follia a cui spero si ponga al più presto rimedio.
Scritto alle 09:49 nella letture, Libri | Permalink | Commenti (15) | TrackBack (0)
Ho spedito al PD questa:
LETTERA APERTA AL PD
Egregio Partito Democratico,
sono un suo iscritto.
Ho letto le dichiarazioni di Enrico Letta (non un semplice iscritto della sezione di Mavalà Ghedinando ma un vice segretario nazionale):
"Come ha detto Bersani, consideriamo legittimo che, come ogni imputato, Berlusconi si difenda nel processo e dal processo".
Lo dico dunque senza mezzi termini: questi dirigenti ci portano al massacro e alla rabbia che quotidianamente aumenta.
Il mio sconforto è ormai una condizione permanente: l'antidoto sarebbe mandarvi tutti a quel paese e farmi i fatti miei e delle persone che amo, non curandoci più dell'Italia che ci sta attorno. Chiudere gli occhi e immaginarci di vivere in un altro paese.
Forse lo faremmo ma poi, riaprendo gli occhi, rivedremmo attorno a noi tutte queste macerie e ci vergogneremmo perchè sapremmo di non aver mosso un solo dito per impedirle.
Durante la campagna per le Primarie l'avevo detto e scritto più e più volte: con Bersani e Dalemassimo il rischio era che vincesse il pateracchio col berlusconismo, ma la candidatura di Ignazio Marino con la sua proposta di radicale rinnovamento (di dirigenti e di linea politica) è stata bocciata.
Adesso, aver avuto ragione non mi consola per nulla.
Comunque, alla prossima occasione di dibattito nel PD verrò, parlerò, dirò chiaro e tondo che finchè in questo partito etica e politica fanno a cazzotti (e l'etica viene bastonata) io mi sento male, così restituirò la mia tessera pregandovi di avvisarmi quando l'etica sarà tornata. (Ma penso che me ne accorgerò da solo)
Nel frattempo continuerò a scrivere pensare manifestare discutere al di fuori del Partito Democratico.
Un saluto
Luciano Comida
Scritto alle 17:18 nella attualità, letture, persone, politica | Permalink | Commenti (107) | TrackBack (0)
"La moderazione serve solo a nascondere il desiderio di eludere le responsabilità...
L'Italia è un paese di cortigiani che gioca sempre sull'unanimità, pronto a farsi comandare da un tiranno ma nello stile più paesano e giocondo...
Mentre la solennità della crisi imporrebbe ai cittadini l'imperativo della coerenza, della libera lotta politica, di una opposizione senza illusioni e senza ottimismi, una opposizione eterna e sterile che dia il diritto di pensare alla lotta politica di domani.
Invece in Italia i partiti di opposizione temono ad ogni istante di essere stati troppo intransigenti, e si affrettano a moderare le loro affermazioni, a piegarsi all'opportunismo..."
Chi ha scritto queste parole?
Scritto alle 20:57 nella attualità, letture, persone, politica | Permalink | Commenti (14) | TrackBack (0)
Scritto alle 13:22 nella letture, Libri, persone, politica, Sistema mediatico, storia | Permalink | Commenti (3) | TrackBack (0)
Stanotte ho letto un centinaio di pagine della Vita di Carmelo Bene, una lunga intervista di 420 pagine con Giancarlo Dotto.
Con il linguaggio sulfureo di Bene,
mescolando aneddoti e oscenità, riflessioni alte e battute esilaranti, giudizi sprezzanti e fumose provocazioni, si parla di teatro e politica, popolo e plebe, disarmanti confessioni private e furiosi attacchi al conformismo di massa, sesso e adolescenza, malattia e flatulenze, Schopenhauer e Totò, cattolicesimo e perversioni, Dario Fo e le tasse.
Un antidoto all'imbecillità e alla banalità che tracimano dai teleschermi italiani.
Scritto alle 09:29 nella letture, Libri, persone, Sistema mediatico | Permalink | Commenti (2) | TrackBack (0)
La rivista Trieste ArteCultura col patrocinio dell’Università organizza un incontro con lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor
(nato nel 1913, internato dai nazisti a Natzweiler-Struthof, Dachau, Bergen-Belsen).
Venerdì 20 novembre
17.00
Aula Magna
Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori
via F. Filzi 14 Trieste
Intervisteranno Boris Pahor:
Elvio Guagnini docente di letteratura italiana
e il mio amicissimo Walter Chiereghin, vice-direttore di Arte Cultura.
In questi giorni, escono in Italia due libri nuovi di Pahor: il romanzo Una primavera difficile (edito da Zandonai) e il saggio-intervista Tre volte no - Memorie di un uomo libero (curato da Mila Orlič, edito da Rizzoli).
L’incontro vuol raccontare la recente e tardiva fortuna letteraria di Pahor presso il pubblico di lingua italiana, mentre l’autore era affermato da decenni sulle scene editoriali europee, con molte traduzioni, tra cui francese, inglese, tedesco, finlandese, catalano e persino esperanto.
La sede dell’incontro è stata scelta perchè un luogo-simbolo, caro alla memoria della comunità slovena: l’edificio, progettato dall’architetto Max Fabiani, era il Narodni Dom: un caffè, un albergo e diverse altre istituzioni culturali della minoranza slovena. Il 3 luglio 1920 il palazzo fu assalito e incendiato dai fascisti: il piccolo Boris Pahor aveva sette anni e fu testimone oculare dell'aggressione.
Oggi, l’edificio di via Filzi è sede di una prestigiosa istituzione universitaria, dove si studiano le lingue straniere: ciò aumenta la suggestione dell’incontro con Pahor.
Interverranno Francesco Peroni, Magnifico Rettore dell’Università e Claudio H. Martelli, editore e direttore di ArteCultura.
Ai partecipanti verrà donata una pubblicazione monografica (curata da Walter Chiereghin) con testi di articoli, interviste e recensioni sullo scrittore, in parte già pubblicati, in parte inediti.
Scritto alle 23:00 nella attualità, letture, Libri, persone, scuola e università | Permalink | Commenti (1) | TrackBack (0)
Ogni giorno bisogna ascoltare orridi insulti alla lingua italiana: spaventosi neologismi come (ne segnalo solo due) "implementare" che nella pubblica amministrazione imperversa come sinonimo di "aumentare" (ieri l'ha usato anche Berlusconi), "ok" oppure "o kappa" invece di "va bene, giusto, sì, d'accordo".
Ma oggi mi dedico all'abusatissimo "piuttosto che" usato, in modo del tutto sbagliato, come sinonimo di "o".
Vi trascrivo qui di seguito un lungo e interessante articolo sulla triste e ridicola vicenda del "piuttosto che". Autrice, una collaboratrice dell'Accademia della Crusca.
Il fenomeno segnalato, cioè l’impiego ormai dilagante di piuttosto che nel senso di o, non è affatto sfuggito, naturalmente, all’attenzione degli storici della lingua (per parte mia, tanto per fare un esempio, ne avevo già discusso in un seminario del circolo linguistico della Facoltà di Lettere di Padova un paio di anni fa; e l’argomento è stato da me riproposto, in seguito, nell’àmbito dei lavori del Centro linguistico per l’italiano contemporaneo [CLIC]). Si tratta, come ha correttamente individuato la nostra lettrice, di una voga d’origine settentrionale, sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo (in tal senso è azzeccata l’allusione nel quesito a un uso invalso «tra le classi agiate del Settentrione»). Era fatale che tra i primi a intercettare golosamente l’infelice novità lessicale fossero i conduttori e i giornalisti televisivi, che insieme ai pubblicitari costituiscono le categorie che da qualche decennio - stante l’estrema pervasività e l’infinito potere di suggestione (non solo, si badi, sulle classi culturalmente più deboli) del "medium" per antonomasia - governano l’evolversi dell’italiano di consumo.
Non c’è giorno che dall’audio della televisione non ci arrivino attestazioni del piuttosto che alla moda, spesso ammannito in serie a raffica: «... piuttosto che ... piuttosto che ... piuttosto che ...», oppure «... piuttosto che ... o ... o ... », e via con le altre combinazioni possibili. Dalla ribalta televisiva il nuovo modulo ha fatto presto a scendere sulle pagine dei giornali: ormai non c’è lettura di quotidiano o di rivista in cui non si abbia occasione d’incontrarlo. E purtroppo la discutibile voga ha cominciato a infiltrarsi anche in usi e scritture a priori insospettabili (d’altra parte, se ha prontamente contagiato gli studenti universitari, come pensare che i docenti, in particolare i meno anziani, ne restino indenni?).
Gli esempi raccolti nel parlato e nello scritto sono ormai innumerevoli e le schede dei sempre più scoraggiati raccoglitori (è il caso della sottoscritta) si ammucchiano inesorabilmente. Eppure non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio.
Mi limiterò qui a un paio d’esempi fra i tanti che potrei citare: dal settimanale L’Espresso, del 25.5.2001, incipit dell’articolo a p. 35 intit. Il cretino locale (sulla fuga dei cervelli dal nostro Paese): «È stupefacente riscontrare quanti italiani trentenni e quarantenni popolino le grandi università americane, piuttosto che gli istituti di ricerca e le industrie ad avanzata tecnologia nella Silicon Valley»; naturalmente questo piuttosto che pretende di surrogare la semplice disgiuntiva, ma il lettore non edotto è portato a chiedersi come mai i giovani studiosi italiani sbarcati negli Stati Uniti snobbino per l’appunto i prestigiosi centri di ricerca della Silicon Valley. E ancora: «... di questo passo, saranno gli omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari ad essere perseguitati»: frase pronunciata dal noto (e benemerito) dott. Gino Strada nel corso del Tg3 del 22.1.2002; in questo caso, la prospettiva d’una persecuzione concentrata protervamente sulla prima categoria avrà reso perplesso più di un ascoltatore...
Immaginiamoci poi che cosa potrà accadere con l’insediarsi dell’anomalo piuttosto che anche nei vari linguaggi scientifici e settoriali in genere, per i quali congruenza e univocità di lessico sono indispensabili.
Per quanto mi riguarda, non sono in grado di localizzare con sicurezza nello spazio e nel tempo l’insorgere della voga in questione. Mi risulta soltanto, sulla base di una testimonianza sicura, che tra i giovani del ceto medio-alto torinese il piuttosto che nel senso di o si registrava già nei primi anni Ottanta. È un fatto che questa formula è generalmente ritenuta di provenienza settentrionale (il che già contribuisce, presso molti, a darle un’aura di prestigio): «Un vezzo di origine lombarda, ma ormai molto diffuso, è quello di usare la parola "piuttosto" [...] nel senso di "oppure"», osservava criticamente un paio d’anni fa, sulla rivista L’esperanto, anno 31, n° 3, 5 aprile 2000, il direttore Umberto Broccatelli (scrivendo però "piuttosto" in luogo di "piuttosto che"). Il lancio vero e proprio del nuovo malvezzo lessicale, avvenuto senza dubbio attraverso radiofonia e televisione (e inizialmente - è da presumere - ad opera di conduttori settentrionali), sembra potersi datare dalla metà degli anni Novanta. Resta da capire la meccanica del processo che ha portato un modulo dal senso perfettamente chiaro, e rimasto saldo per tanti secoli, come piuttosto che a virare - all’interno di un certo uso dapprima circoscritto e verosimilmente snobistico - fino al significato della comune disgiuntiva.
Per azzardare una ricostruzione di quel processo proviamo a partire da una frase del genere: «Andremo a Vienna in treno o in aereo». In questo caso le due alternative semplicemente si bilanciano. Se variamo la frase rafforzando il semplice o con l’aggiunta dell’avverbio piuttosto: «Andremo a Vienna in treno o piuttosto in aereo», chi ci ascolta può cogliere una tendenziale inclinazione per la seconda delle due soluzioni, quella dell’aereo. Sostituiamo a questo punto o piuttosto con piuttosto che: «Andremo a Vienna in treno piuttosto che in aereo»; qui risalta abbastanza nettamente - sempre attraverso la comparazione tra due opzioni - una preferenza per la prima rispetto alla seconda. Dall’analisi delle varianti contestualizzate nelle tre frasi, mi sembra si delinei una possibile spiegazione del piuttosto che semanticamente ‘deviato’ di cui ci stiamo occupando (e preoccupando): in sostanza, può essere il prodotto di una locale, progressiva banalizzazione portata fino alle estreme conseguenze, cioè fino al totale azzeramento della marca di preferenza che storicamente gli compete (e che nell’italiano corretto continuerà a competergli). Basterà avere un po’ di pazienza: anche la voga di quest’imbarazzante piuttosto che finirà prima o poi col tramontare, come accade fatalmente con la suppellettile di riuso. Segnalo intanto la significativa "variatio" che mi è capitato di cogliere al volo qualche giorno fa (precisamente, il 17 aprile 2002), nel corso di una trasmissione televisiva che si occupa di alimenti e di buona cucina: un’esperta di gastronomia, chiamata a giudicare tra piatti a base di pesce allestiti in gara da due cuochi, nel sottolineare quanto sia importante anche l’effetto estetico nella presentazione d’una vivanda ha fatto osservare come nei molluschi dalle valve variopinte utilizzati in una delle portate ci fosse «più colore rispetto a una triglia anziché a una sarda» (triglia e sarde essendo i pesci usati nella preparazione di altre due portate).
Ornella Castellani Pollidori
Scritto alle 07:10 nella attualità, banalità, letture, persone, Sistema mediatico, Televisione | Permalink | Commenti (86) | TrackBack (0)
Scritto alle 09:18 nella attualità, banalità, domande, Giochi, letture, Libri, persone, Televisione | Permalink | Commenti (38) | TrackBack (0)
Alla Biblioteca Statale di Trieste, aleggia un mistero.
Che spero voi possiate aiutarmi a decifrare.
E' in distribuzione un volantino ufficiale con tanto di indirizzo, numeri di telefono, fax, opac, indirizzo di posta elettronica, istruzioni per prendere in prestito i libri, orario eccetera eccetera eccetera.
L'orario del prestito è (ricopio letteralmente dallo stampato):
LUN. - MAR. - MERC. - GIOV. VEN. - 08.30 -18.00
con prelievo pomeridiano dalle ore 15, 16, 17, 18
Qualcuno sa spiegarmi il senso di quel: "15, 16, 17, 18"?
Grazie.
Scritto alle 22:32 nella attualità, banalità, domande, Giochi, letture, Libri, persone, scuola e università | Permalink | Commenti (27) | TrackBack (0)
29 ottobre 1959: il numero 1 di Pilote pubblica la prima puntata di Asterix il gallico (sceneggiato da Renè Goscinny e disegnato da Albert Uderzo).
Nascono così Asterix, Obelix, Assuranceturix, Panoramix, Giulio Cesare, Cleopatra, Matusalemix, Abraracourcix, Automatix, Barbe Rouge, Guru Kivalah, Treppiedi, Baba, Beniamina, Ordinalfabetix, Beltorax, Grandimais, Caius Bonus, Ielosubmarine, Olaf Grandibaf, Pepe, Salsa Di Peperon Y Monton, i Pirati, i cinghiali.
E lei! Falbalà.
E lui! Idefix.
Se vi va, lasciate il ricordo di un vostro incontro con questi deliziosi galli celti (così diversi dai fessi nostrani della pseudo-Padania) nel loro piccolo buffo villaggio dell'Armorica.
Dan Brown (il tizio che ha scritto Il codice Da Vinci vendendo milionate di copie) mi ricorda quegli sventurati che vincono una cifra pazzesca alla lotteria però, non essendo troppo intelligenti, sperperano tutto in quattro e quattr'otto.
Brown è uno scrittore dall'imbarazzante assenza di talento.
Basta leggere le orribili prime pagine del suo nuovo romanzo, Il simbolo perduto: le trovate sul sito della Mondadori (http://www.librimondadori.it/web/mondadori/mediabox/sfoglialibro?_SfogliaLibro_WAR_SfogliaLibro_idScheda=ISBN_978880459674).
I critici che l'hanno letto ne sono rimasti sconvolti (e non per la sua bellezza o per la sua precisione storica).
Ancora ancora ancora, Il codice Da Vinci non era malissimo: certo che rimasticava un'idea vecchia come il cucco dato che il presunto sconvolgentissimo scandalo che avrebbe dovuto far tremare dalla fondamenta la cristianità era uno pseudo-segreto noto (e accantonato perchè ridicolo) fin dai primi secoli dopo Gesù, certo che sparava delle fesserie grandi e grosse, ma almeno almeno almeno il romanzo partiva benino e le 100/150 pagine iniziali erano abbastanza divertenti anche se poi il libro andava alla deriva.
Ma gli altri romanzi...Angeli e demoni è un (noioso) crescendo di comicità involontaria e Crypto non sta nè in cielo nè in terra.
Eppure Dan Brown, senza un filo di autoironia, si fa fotografare così:
Un paio di giorni fa (il 23 ottobre) su Repubblica è uscita, a firma di Angelo Aquaro, una lunghissima intervista con Dan Genius Brown.
Se non l'avete letta, cercate di procurarvela: sono due paginone memorabili. Perchè è davvero difficile trovare uno scrittore così vacuo, banale e evasivo, capace di dare risposte tanto balorde e insulse.
Ve cito solo un paio.
Domanda: Obama le piace?
Risposta: Un tipo smart con una missione impossibile.
Domanda: Le interessa Berlusconi?
Risposta: Non so molto dei suoi guai giudiziari e penso che a ogni persona che guida un paese va dato il beneficio del dubbio: è un mondo difficile ed è un lavoro difficile.
Scritto alle 21:31 nella attualità, banalità, letture, persone, Sistema mediatico | Permalink | Commenti (65) | TrackBack (0)
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