Sono triste perchè è morto Blake Edwards: Pantera rosa, Victor Victoria, S.o.B. e tante altre opere (e operine) che non mi stanco di guardare. Lo voglio ricordare con un frammento del film comico che (in assoluto) amo di più: Hollywood party. la cena di Hollywood party
Una vita difficile, Il sorpasso, I soliti ignoti, La dolce vita, Bianca, Gomorra, Umberto D. Salvatore Giuliano, La grande abbuffata, La battaglia di Algeri
Le lamentele del ministro Renato Brunetta e del suo portavoce (Il piagnisteo) perchè a L'Aquila hanno magnato male assai anco se aggratis sono degne di un film di Totò. Unico problema: che parte avrebbe interpretato Totò? Il piccolo ministro? "Lei non sapete chi sono io. Questo salame rancido lo dia al gatto di sua sorella" Il portavoce? "Vengo con questa mia addirvi chel ministro sellamentato per la scadenza della qualità del cibo" Il proprietario? "Io a questi tromboni gli propìno un caciocavallo di latte di topo" Il cameriere? "Io modestamente a voi, onanorevole Trombetta...no Brunetta...vi schiafferei in cella, in gattabuia, anzi in una lettiera per gatti"
Avevo circa dieci anni quando lo vidi con mio papà all'Astra di Trieste. Da allora, al cinema non ho mai sentito una risata collettiva così fragorosa e liberatoria come alla fine di questa stupenda sequenza: Totò e la carta bianca dei nazisti Nel complesso, il film non è granchè ma Totò (soprattutto in questa scena) è sublime: usando corpo e voce, silenzi e gesti, movimenti e volto, passa dal drammatico al comico, dalla tensione all'ironia, portandoci verso la liberatoria conclusione, prologo della Resistenza contro ogni prepotenza e ogni ingiustizia.
Contagiare il prossimo? Credo sia una delle esperienze più belle al mondo. Contagiarci a vicenda con l'allegria, l'umorismo, la giustizia, la curiosità, la scoperta, la fiducia, i libri film musiche cibi luoghi che amiamo, le idee nuove, le culture e i punti di vista diversi... Contaminarsi e scambiarsi... Contagiarsi è meraviglioso.
L'alternativa è essere "leghisti o talibani dentro".
Non mi perdo mai gli articoli di cinema scritti su Repubblica da Silvia Bizio: ci sono sempre una sciocchezzina, una sbavaturina, un'imprecisioncina, una fesseriuccia che meritano la lettura. Le prime volte gliel'avevo segnalato, molto garbatamente, senza nessuna risposta nè tantomeno esito: la Bizio continua imperterrita. Come oggi, che intervista Clint Eastwood sul nuovo film Hereafter che uscirà negli USA il 22 ottobre e in Italia il 3 gennaio. In una delle risposte (ovviamente tradotte e, immagino, sintetizzate) fa dire al povero Clint non una cazzatina ma una cazzatona. Questa: "L'anno prossimo farò un film su J. Edgar Hoover, agente dell'Fbi, con Leonardo Di Caprio".
Ho letto bene??!! Hoover agente del Federal Bureau of Investigation???!!! John Edgar Hoover lavorò sì per l'FBI ma ne fu il potentissimo direttore dal 1924 al 1972.
Dite che sto a guardare il pelo nell'uovo? Che questi sono dettagli? Ma un/una giornalista non dovrebbe confondere i direttori con i fattorini. Soprattutto se questo/a giornalista se ne sta a fare l'inviato/a speciale a Los Angeles per uno dei più importanti quotidiani italiani.
Nel pomeriggio mi ha risposto Silvia Bizio (a cui avevo scritto): mi ha ringraziato per la segnalazione e scusandosi per l'errore macroscopico, non dovuto a lei nè a Eastwood ma a chi a Repubblica ha corretto il testo.
Film, libri, romanzi, fumetti, sceneggiati televisivi 1 e 2, canzoni, rap, dischi, copertine e copertine di giornali.... Provo nausea per la mitizzazione creata attorno a personaggi di merda come i criminali fascisti e sanguinari della banda della Magliana.
Spesso, negli incontri con i ragazzi nelle scuole o nelle biblioteche, mi chiedono: cosa ti piace più di tutto?
Allora racconto: è la cosa che sto facendo, nel momento in cui la faccio.
Quando leggo un romanzo che mi appassiona non c'è nulla di più bello,
ma quando bacio mia moglie non c'è niente di più meraviglioso
e quando gioco con il cane Charlie che risponde facendo le fusa nulla è più tenero, quando mangio una pesca croccante niente è più dolce,
quando sono sotto il palco a un concerto rock,
quando mia figlia mi abbraccia in pubblico,
quando mi raccontano qualcosa di me che avevo dimenticato,
quando sto scrivendo un libro,
quando faccio felice qualcuno,
quando cambio idea,
quando vedo un film che mi piace,
quando scopro un musicista nuovo,
quando nella libreria dell'usato trovo un libro cercato da anni,
quando conosco una persona interessante,
quando sono utile a qualcuno,
quando di sera sto serenamente con mia moglie,
quando faccio meditazione,
quando ricevo una lettera,
quando mi raccontano qualcosa di divertente,
quando inizio a leggere un libro nuovo,
quando la mia squadra segna un gol,
quando il piatto che ho cucinato mi viene bene,
quando parto per un viaggio,
quando torno a casa,
quando mi fanno un regalo inaspettato,
quando una crisi emicranica mi passa,
quando...
...ognuno di questi "quando" è la cosa che mi piace di più al mondo.
L'ho appena terminato e dico subito la mia opinione: un capolavoro.
Ma adesso vi dico come ci sono arrivato.
Ne avevo sentito parlare (benissimo) qualche mese fa ed ero molto curioso: il dieci marzo 2010 sarebbe uscito in libreria Hanno tutti ragione, primo romanzo di Paolo Sorrentino, quarantenne, napoletano, regista, Il Divo, Le conseguenze dell'amore e di altri film.
Ho comprato il libro questo pomeriggio, in una Trieste bianca e paralizzata dalla tempesta di neve e bora che a centocinquanta all'ora mi prendeva a spintoni e a schiaffi in faccia, traffico bloccato, autobus fermi, telefonini fuori uso perchè è saltata chissà quale diavoleria e non c'era campo nè rete nè ricezione, poca gente che a passetti prudenti camminava lentamente su marciapiedi scivolosi di ghiaccio, folate di nevischio fitte come nebbia.
Da poco ho cominciato a leggere il romanzo e dopo le prime quaranta, divertentissime e amarissime, pagine sono entusiasta.
Con uno stile ricco e gustoso che grazie a Dio non c'entra nulla col piattume delle scuole di scrittura creativa, Sorrentino mette in scena un io narrante formidabile, il cantante di night Tony Pagoda. E attorno a lui muove altri personaggi, tra perfidi sarcasmi e uggiose malinconie, lampi di umorismo e guizzi quasi da thrilling.
Se continua a questi livelli, un gran libro.
Venerdì: sono andato ancora avanti.
E si conferma splendido.
Ad esempio quando racconta un'incandescente passione erotica e Sorrentino procede su un difficile filo del rasoio: da un lato tutto può precipitare nel più fradicio deja vu, dall'altro il linguaggio usato dall'io narrante Tony Pagoda rischia di essere artificioso.
Invece la scrittura (fondendo all'interno della stessa frase toni alti e bassi, echi canzonettistici e ricchezza lessicale, piccole citazioni e invenzioni linguistiche) sa creare un impasto stilisticamente saporito, emotivamente convincente e narrativamente appassionante.
Domenica: mi mancano cinquanta pagine.
Da quanto non incontravo un romanzo italiano tanto vitale e riuscito?
Dalla Taverna del doge Loredan di Alberto Ongaro? Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo? Vita standard di un venditore provvisorio di collant di Aldo Busi? La camera da letto (anche se è un poema) di Attilio Bertolucci? A perdifiato di Mauro Covacich?
Cito una delle (innumerevoli) frasi memorabili di Tony Pagoda:
"Per questo non vado mai al cinema. Quando lo spettacolo finisce, fuori c'è la caducità della normalità. E questa escalation brutale, violenta, mi fa soffrire come un povero uomo tra i poveri uomini. mi fa sentire fuori dalla vita alla quale vorrei appartenere per sempre. Quella dei film.
Fuori, è tutto uno stupro"
Nel pre-finale, lo stupendo discorso del vecchio scrittore Gegè Raja dà il senso a tutto il romanzo. Ma gli ospiti della festa (gli italiani dell'Italia di oggi) lo considerano "uno che non ci sta più con la testa".
La chiusura (che ovviamente non vi racconto) è all'altezza di tutto il libro.
"Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore".
"La situazione politica in Italia è grave, ma non seria".
"Gli italiani sono prontissimi a fare le barricate. Usando i mobili degli altri"
"Il bello dell'amore di gruppo è che si può dormire"
"Erano un pugno d'uomini indecisi a tutto"
"Abbiamo mai perso una guerra, noi italiani? Mai. Cioè, ne abbiamo perse alcune, ma per colpa del nemico"
"In Francia, il cattolicesimo è un movimento letterario"
"R. non ha letto nulla ma ha visto il film"
"Perde stupidità da tutte le parti"
"La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia"
"Il mio gatto fa quello che vorrei fare io, ma con meno letteratura"
"Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura".
"Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione".
"L’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio, preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito".
"In Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco".
"In questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Altri paesi hanno una loro verità. Noi ne abbiamo infinite versioni".
"In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti".
"Per gli italiani l’inferno è quel posto dove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d’accordo".
"Oggi anche il cretino è specializzato».
"Ho poche idee, ma confuse".
"Il sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati alle nuvole".
Durante la lavorazione di 2001 Odissea nello spazio, Stanley Kubrick confidò ad Arthur Clarke (autore del romanzo):
"Spesso mi domando se c'è qualche forma di vita intelligente nell'Universo.
O sulla Terra"
Finalmente ho visto Avatar.
E vorrei dir la mia, anzi le mie opinioni a caldo, appena tornato a casa.
L'effetto tridimensionale dopo cinque minuti si attenua enormemente (dipende dalla correzione sensoriale, fenomeno neurologico che ci porta a rimodulare in base al nostro quadro di riferimento "normale" le informazioni visive che ci arrivano. E dato che il nostro quadro di riferimento "normale" ci dice che sullo schermo vediamo a due dimensioni, dopo qualche minuto anche le 3d tendono a ridiventare due. So che l'ho spiegato rozzamente ma non sono uno scienziato)
Azzardo una previsione: la tanto strombazzata rivoluzione delle 3d non avrà nemmeno lontanamente lo stesso impatto creativo e artistico delle precedenti rivoluzioni cinematografiche. Cioè il passaggio dal muto al sonoro e poi dal bianco e nero al colore.
Questo tridimensionale mi pare, alla fin fine, molto fumo.
Il film di James Cameron è come me l'aveva descritto il mio amico Stefano Tuvo (medico e ottimo, anche se poco prolifico, scrittore di fantascienza): qualcuno che vive al di sopra dei propri mezzi, gira in Mercedes, vive in hotel a cinque stelle, indossa abiti cuciti su misura, calza scarpe fatte apposta per lui, al polso un orologione d'oro, ma tutto comprato con assegni a vuoto perchè questo qualcuno possiede poco o nulla.
Uguale Avatar: grande sfoggio di denaro e di tecnica ma idee originali zero virgola zero.
Per dirne solo alcune: le guarigioni sono tratte da Vonda Mc Intyre, i draghi volanti dalla Mc Caffrey e da Jack Vance, vari spunti da molti romanzi di Poul Anderson, il mondo della foresta da Ursula Le Guin, l'intero ecosistema pacifico da Lontano dal pianeta silenzioso di Clive S. Lewis, l'arrivo delle reclute da una identica sequenza in Platoon di Oliver Stone, lo schema di fondo da Pocahontas e Balla coi lupi.
E poi chi fruga sul Web ha forse già visto che Cameron ha scopiazzato in lungo e in largo "Call me Joe" del 1957. Ma (se fate una ricerca su internet o sui giornali) su questo testo potete leggere delle fregnacce approssimative: volta per volta sarebbe un racconto o un romanzo scritto da Poul o Paul Anderson, autore americano o danese (buone le prime).
Comunque sia, eccone la trama: un paraplegico si collega telepaticamente a una forma di vita artificiale per esplorare un pianeta dalle condizioni ostili. Assapora la libertà e la forza del suo nuovo corpo, combatte i predatori del pianeta e comincia a sentire come suo più il fisico in cui è ospitato che il proprio vero corpo "naturale". Avatar, vero?
Quasi tutte le sequenze nella foresta non hanno per nulla un effetto realistico ma di cartone animato.
I personaggi (buoni e cattivi) sono tagliati con l'accetta: in particolare il comandante dei marines sembra una caricatura.
Si salvano alcune sequenze e la protagonista femminile aliena (l'unico personaggio con una sua credibilità).
Capisco che il film possa piacere molto: ecologista, romantico, spettacolare, lieto fine, antimilitarista ma non imbelle.
Io lo trovo deludentissimo e, complessivamente, noioso.
Mi sono divertito moltissimo, vedendo Soul kitchen del regista turco Fatih Akin.
Zinos è un giovane turco ad Amburgo, proprietario di un ristorante scalcinato (appunto il Soul Kitchen) che attraversa un momentaccio: il fisco gli corre dietro, un losco tedesco vuole portargli via il locale per una speculazione edilizia, la ragazza se ne va in Thailandia, il fratello è in libertà vigilata e ha bisogno di lavoro, l'ufficio igiene fa un'ispezione, spostando una lavastoviglie gli viene il colpo della strega alla schiena...
Di colpo le cose paiono aggiustarsi perchè Zinos trova un cuoco formidabile che sembra la versione aggressiva del cameriere alcolista di Hollywood party...ricordate? (l'ingresso in scena del cuoco, con la sequenza del gazpacho, è esilarante).
Ma poi il destino si accanisce contro il Soul Kitchen.
Anche se alla fine...
Senza alcun dubbio, è un film furbissimo.
Come un cuoco assai abile, Akin mette insieme ingredienti disparati che garantiscono un piatto da applausi, da far contenti tutti.
Musiche sensazionali che frullano con disinvoltura rock classico, Balcani, Africa, Europa, Medioriente, rap, techno, etno.
Cinepresa fluida.
Attori uno più bravo dell'altro, in un coro perfetto che lascia spazio a numeri solisti.
Sceneggiatura bel oliata (basti vedere cosa succede al momento dell'asta con la gag del bottone e delle pillole).
Nessun moralismo e nessuna lezione, se non questa: i trentenni possono cavarsela solo non tradendo i propri affetti e non arrendendosi mai.
Un eros che sobbolle: le (in apparenza) castissime sequenze con la fisioterapista (interpretata da Dorka Gryllus) si mangiano come carica erotica gran parte del cinema "nudo" e ammiccante di questi tempi.
Prima di vederlo, azzardo la prevsione di cosa mi piacerà e cosa non mi piacerà del film di James Cameron.
Di Avatar mi conquisterà:
- il saldo legame con i temi della fantascienza più classica (esplorazioni spaziali, popolazioni e mondi alieni attentamente raccontati, rapporto tra mente e corpo, amori tra umani ed extraterrestri),
- l'uso geniale e innovativo della tecnologia messa finalmente al servizio di una storia solida,
- gli attacchi che gli arriveranno dalla destra, dal Vaticano e dai critici che adorano i film noiosi,
- le tematiche ambientaliste e pacifiche (non pacifiste a oltranza),
- la scelta di fondo anti-imperialista e anti-capitalismo predatorio.
Di Avatar mi daranno fastidio:
- l'eccessivo manicheismo con i cattivi cattivi cattivoni da caricatura,
- la troppa velocità di alcuni passaggi che impediscono di assaporare molti dettagli visivi che vanno perduti,
- l'interminabile e roboantissima battaglia finale, quasi da video-gioco dilatato,
- certe concessioni di Cameron al gusto del pubblico pop-cornizzato, quando poteva risparmiarsele,
- il fatto che moltissimi spettatori e criticonzoli (per esempio sul Giornale parlano di fantasy) non si rendono conto che si tratta di un film di fantascienza pura,
- la crisi di emicrania che mi procureranno gli occhialetti per la visione in 3D.
Sul Corriere della Sera compare una lettera del Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi.
Ve la riporto di seguito, con la breve replica del critico cinematografico Paolo Mereghetti.
Visto il faticosissimo italiano e la traballante sintassi utilizzata dal ministro (che tra l'altro, dimostrando di non sapere nemmeno di cos'è ministro, si firma "della cultura" e non "per i Beni e le Attività Culturali") la domanda è:
queste lettere le partorisce da solo oppure se le fa scrivere da qualche funzionario?
Comunque, ecco il testo:
Gentile Direttore,
nei giorni prima di Natale il Corriere della Sera ha concentrato l’attenzione su una questione, quella riguardante il cosiddetto cinepanettone, su cui vale la pena soffermarsi. Anche perché Galli della Loggia ha opportunamente sottolineato il paradosso che un film del genere, «pieno di volgarità», possa ottenere benefici economici dal Ministero per i Beni e le Attività culturali.
Sgomberato il campo dall’erronea notizia della concessione a tale genere di film del riconoscimento di film di interesse culturale, tuttavia una questione esiste e non intendo ignorarla. Anzi, il pungolo di un quotidiano come il Corriere della Sera e l’analisi di Galli della Loggia mi induce ad annunciare alcuni provvedimenti che intendo assumere.
Il cinema è uno snodo cruciale del rapporto tra lo Stato e il mondo della cultura. Il governo di cui faccio parte intende intervenire con proposte riformatrici anche in questo settore emblematico della visione della società e dei valori che devono orientare l’azione di una maggioranza politica liberale. Innanzitutto una premessa necessaria: dal Dopoguerra esiste una legge, varata da Giulio Andreotti, per la quale si riconosce automaticamente ad ogni film italiano un contributo sui biglietti staccati. Grazie a questa normativa in quegli anni, il nostro cinema è cresciuto, come fenomeno culturale, fino a diventare uno dei più acclamati al mondo, e di conseguenza è cresciuta l’industria cinematografica ad esso collegata. In un momento felice, la cultura senza cedimenti alla volgarità (pensiamo alla grande commedia italiana) ha incontrato il gusto del pubblico.
Certo, da liberale come Galli della Loggia ritengo che sia possibile e doveroso che lo Stato o le élites si occupino anche dell’elevazione culturale della nazione, senza tuttavia imporre un gusto o una propria ideologia. Ed è per questa ragione, per liberare progressivamente il cinema dalla politica, che ho introdotto un sistema di finanziamenti indiretti attraverso la defiscalizzazione dell’investimento (il tax credit e il tax shelter) e limiterò d’ora in avanti il finanziamento diretto, in conseguenza del riconosciuto valore culturale di un’opera cinematografica, solo alle opere prime, cioè solo ai giovani registi che hanno davvero bisogno di essere sostenuti all’inizio della loro carriera in ingresso al mercato.
Per quanto riguarda il caso del cinepanettone, bisogna innanzitutto ricordare che solitamente i proventi sostanziosi dei film commerciali vengono poi utilizzati, dai migliori produttori, per finanziare i film di qualità. Il film in questione, inoltre, non ha chiesto nessun contributo diretto allo Stato ma, si ribadisce, il mero riconoscimento per i requisiti di spettacolarità al fine di ottenere la possibilità di ottenere il credito di imposta così da poter reinvestire l’anno prossimo. Una commissione inoltre valuterà, dopo la visione della copia campione, se concedere o meno la qualifica di film d’essai (e questa è la sottolineatura di Mereghetti), qualifica che non porterebbe benefici all’impresa che lo ha prodotto, bensì agli esercenti che lo hanno programmato, sempre che gli esercenti siano tra le sale riconosciute d’essai. Quando venne varata la riforma della legge cinema (c.d. legge Urbani) fu proprio la Federazione Italiana del Cinema d’essai a chiedere che venissero introdotti degli automatismi per diminuire la discrezionalità di riconoscimento dell’amministrazione e consentire a loro stessi di programmare in anticipo l’attività delle sale.
Questo fu un passo avanti, ma ora occorre rivedere con maggiore precisione, sulla base di parametri inconfutabili, come per esempio la partecipazione ai festival internazionali, e non solo dietro la certificazione degli incassi effettuati o addirittura la composizione del cast, la ripartizione dei finanziamenti. Possiamo in conclusione trarre qualche insegnamento da questa vicenda e dalle giuste preoccupazioni sollevate da Galli della Loggia? Io penso di sì.
Innanzitutto, che sia necessario rivedere tutto il sistema del finanziamento statale al mondo della cultura e del cinema in particolare. Ho già anticipato alcune misure già assunte che garantiscono una maggiore autonomia della cultura dal predominio dello Stato e della politica (incentivi fiscali e finanziamenti solo alle opere prime). In questo quadro, un’ulteriore applicazione di nuovi criteri per accedere ai contributi automatici limiterà il contributo dello Stato alle sole opere di chiaro e riconosciuto valore culturale.
Con viva cordialità
Sandro Bondi
Ministro della Cultura
Che Natale a Beverly Hills abbia ottenuto la qualifica di «film d’interesse culturale» lo si legge sul sito ufficiale della Direzione generale per il cinema (sotto il link Attività/Produzione/Istanze presentate entro il 30/9/2009). Che la qualifica sarà quasi sicuramente confermata «dopo visione copia campione» lo si capisce dalla legge, che dà alla commissione la discrezionalità di attribuirla per meriti «artistici, culturali o spettacolari». Come verranno utilizzati «i proventi sostanziosi dei film commerciali» lo lasciamo dire ai loro produttori, ma che la qualifica di film d’interesse culturale comporti automaticamente anche quella di film d’essai lo dice sempre la legge. E un cinema d’essai, per legge, si definisce tale solo in base al numero di proiezioni che fa di film con la qualifica d’essai: se cinepanettoni e «simili» entrano in quel novero, anche la definizione di «cinema d’essai» cambia ovviamente significato.
La Sottocommissione Cinema del ministero dei Beni e le Attività culturali lo ha definito "di interesse culturale".
Non ci resta che il boicottaggio.
Anche perchè il produttore Aurelio De Laurentiis (grazie al riconoscimento ministeriale) potrebbe ricevere fino a due milioni di contributi pubblici.
Il D. M (Decreto Ministeriale 28 del 2004, il cosiddetto decreto Urbani) riconosce infatti finanziamenti pari al 7% degli incassi per i lungometraggi che al botteghino abbiano ottenuto “da 10.329.138 a 20.700.000 euro”.
Negli ultimi anni i cinepanettoni firmati da Neri Parenti hanno sempre superato questa cifra: dai 21 milioni di "Natale a Miami" del 2005 ai 25 milioni di "Natale a Rio" del 2008.
Anche il film del 2009 dovrebbe superare con facilità i 20 milioni di incasso. E in questo caso (essendo stato classificato "di interesse culturale" dalla Sottocommissione Cinema del Ministero dei Beni e le Attività culturali) frutterebbe al produttore un "aiutino" di Stato: un contributo pubblico di 1 milione e 500 mila euro.
Ma non basta.
Perchè grazie al meccanismo fiscale del tax credit, ogni film italiano può chiedere un credito d'imposta: un altro vantaggio per la produzione. La legge stabilisce che il credito d'imposta possa arrivare al 15% del budget per i lungometraggi: tra 10 e 12 milioni di euro per "Natale a Beverly Hills".
Insomma, Aurelio De Laurentiis potrebbe ottenere fino a tre milioni di euro di credito nei confronti del fisco.
Non ci resta che il boicottaggio.
Di questi film, di questo Ministero, di questa sub-cultura, di questo governo.
Mia moglie Tatjana lo detesta e (se non fosse un gesto antiecologico) darebbe fuoco ai suoi film.
Io (dopo averlo detestato per anni) ho cambiato radicalmente idea dopo aver visto INLAND EMPIRE, ho rivisto tutta la sua opera, mi sono convertito e trovo affascinante il suo cinema.
Ecco, con questa abissale disparità di vedute e di stati d’animo, tre sere fa ci siamo seduti in poltrona per vedere Una storia vera (The Straight Story, 1999) di David Lynch.
Alla fine, il nostro giudizio era unanime: uno di quei film che riconciliano col mondo.
La trama è presto detta: Alvin Straight ha 73 anni , la salute scassatissima e una figlia che sembra mezza ritardata (ma capiremo che non è così). Gli arriva una telefonata: al fratello Lyle (che non vede da tanti anni perché hanno litigato di brutto) è venuto un colpo. Decide di andare a trovarlo per riconciliarsi con lui. Problema: Alvin è mezzo cieco e non ha la patente. In più è testardo come un mulo sardo e vuol far tutto da solo, di testa sua. Così parte per il lungo tragitto Iowa-Wisconsin su una lentissima motofalciatrice e uno scassato rimorchietto.
Durante il viaggio incontrerà una giovane autostoppista incinta, un’ambientalista che senza volerlo investe cervi, una famiglia ospitale, due gemelli che riparano motori, un reduce della seconda Guerra mondiale.
E al termine suo fratello, in una sequenza che non vi racconto ma che avrebbe mandato in visibilio John Ford.
Tutto qua.
Un film pazzamente fuori moda, in cui in fondo non succede quasi nulla, lento, con lampi di bizzarro humour, commovente senza mai indulgere nello strappalacrimismo, tanto semplice che lo capirebbe anche un bambino di cinque anni ma nello stesso tempo complesso, una micidiale colonna sonora country-blues di Angelo Badalamenti (quelle musiche assassine che ti dici: “beh, so farle anch’io…cosa ci vuole…”. Sì, provaci, però), un grandioso protagonista Richard Farnsworth a cui indegnamente non diedero l’Oscar (lo prese Kevin Spacey per American Beauty).
Se (come me) amate David Lynch, l’ennesima conferma.
Se (come Tatjana) lo detestate, un terremoto alle vostre convinzioni.
(Anche se mia moglie ci tiene a precisare che Una storia vera è solo l’eccezione che conferma la regola)
La posizione di Bersani mi ricorda Moretti in Ecce bombo:
"No veramente non...non mi va. Senti, Di Pietro, ma che tipo di cosa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi e io sto buttato in un angolo...no. Ah no, se si manifesta non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a un palco, di profilo, in controluce. Voi mi fate: "Piddì, vieni di là con noi, dai" e io "andate, andate, vi raggiungo dopo". Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo".
Ieri sera ho fatto vedere a mia moglie Tatjana il film di Nanni Moretti che di gran lunga preferisco: Bianca.
Del 1984, mette in scena in modo esilarante e drammatico lo psicopatico più convincente della storia del cinema italiano: Michele Apicella, professore di matematica al liceo in un sistema scolastico sgangherato (la scuola si chiama Marylin Monroe, gli insegnanti fanno lezione citando solo la Juve di Omar Sivori o l'attrice Claudia Cardinale e vanno in gita cantando in coro la battistiana "Dieci ragazze").
Misantropo, nevrotico, guardone, ossessionato dalle vite degli altri a cui vorrebbe applicare la limpida chiarezza dei teoremi matematici, Michele è angosciato dal tradimento degli amici e dalle amiche di un tempo: rapporti di coppia che si sfasciano, amori che marciscono nella menzogna.
"Continuiamo così, facciamoci del male" dice quando si autoinvita a pranzo a casa della famiglia di una propria studentessa e del suo fidanzatino, in una sequenza comicissima e straziante (quella della Sacher Torte che non è un Mont Blanc).
Poi nella vita di Michele entra la collega Bianca (Laura Morante) e con lei irrompono l'amore, la felicità.
Un peso impossibile da reggere.
Intanto, avvengono degli omicidi.
Alcune sequenze memorabili:
- l'inizio con l'arrivo di Michele nella casa nuova (lavandini, water, bidet disinfettati dando fuoco all'alcol),
- Michele sulla spiaggia, con la colonna sonora di Battiato, in mezzo a coppie abbracciate e a decine di ragazze seminude, si sdraia su una sconosciuta che prende il sole e viene cacciato via da una piccola folla,
- Michele che di notte si sveglia nel proprio letto, sobbalza di spavento perchè si trova accanto Bianca, non riesce a riaddormentarsi e allora va in cucina a mangiar Nutella da un gigantesco barattolo,
- il primo contatto con la scuola Marylin Monroe e con il preside ridanciano e insopportabile, Michele che commenta: "Mi troverò bene",
- lo scambio di battute sul macellaio ("io l'ho inquadrata...lei è uno di quelli che hanno il macellaio di fiducia che le mette via i pezzi di carne migliori" "e cosa c'è di male?" "che poi vengo io e mi prendo i pezzi peggiori"),
- Michele che dice alla signora: "Chiami la polizia, tra poco mi sparo"
- Michele in classe che dice allo studente interrogato: "e tu non hai pietà di me",
- il monologo finale sulle scarpe e su Otelo de Carvalho.
Un film che amo perdutamente.
Stasera io e Tatjana abbiamo guardato in dvd Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, un film del 1968, con Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Pamela Tiffin (che quando ero adolescente mi piaceva da morire).
Dopo 41 anni resta una commedia esilarante e piena di paradossi: Risi (con la collaborazione degli sceneggiatori Age e Scarpelli) continua nel suo geniale, amaro e divertentissimo affresco del nostro paese. Qui mette in scena un barbiere (Manfredi), un sarto sordo-muto (Tognazzi) e la ragazza tra loro sospesa (la Tiffin), tre personaggi che, nel pieno della contestazione studentesca e delle lotte operaie che stavano trasformando l'Italia, vivono strampalate vicende amorose, parlando come nei fotoromanzi, citandosi l'un l'altro le canzonette di Sanremo, agendo come irresponsabili mentecatti, prefigurando il degrado antropologico dei nostri giorni.
Le figure di contorno sono (come sempre nei film di Risi) memorabili, i riferimenti passano da Billy Wilder ai fratelli Marx, molte battute lasciano il segno e la sequenza della festa a casa dei ricchi che culmina con l'assaggio del vino del 1911 è spettacolosa, una di quelle scene in cui Risi inietta tutto il proprio disprezzo per la "razza padrona" arrogante, proterva, volgare, ignorante, esibizionista, che infesta l'Italia.
Un ottimo film da recuperare.
C'è un sito satirico-religioso (valdese) che a me garba assai: si chiama peccato.org.
Le fonti di ispirazione sono (esplicitamente) Il male, i Monty Python, Douglas Adams e la sua saga della Guida galattica per autostoppisti, i disegnatori iconoclasti francesi Reiser e Wolinski. E ovviamente Gesù Cristo.
Ecco il link al sito:
http://www.peccato.org/
Ed ecco quello alla gustosissima sezione video:
http://www.peccato.org/video/video.php
Ma intanto due minuscoli assaggi:
Servizio da caffè "papa per 4" con piatto per dolci
da oggi con "PAPA PER 4"
non sarà più un peccato di gola bersi una tazzina di caffè in più...
Rendi evidente la tua ammirazione ed il tuo rispetto per la fede cattolica acquistando questo bellissimo servizio in vera porcellana finemente decorata che riporta le effigi degli ultimi 4 pontefici...
Bevi con Paolo VI per il gusto degli anni '60.
Un sorso veloce con l'effimero papa Luciani.
Un caffè forte nella tazza di Woytila ed una tazzona di caffe lungo alla tedesca con Ratzinger.
Si raccomanda di usare marche di caffè che pubblicizzino scene paradisiache.
Cod. 914-134 662 - € 24,90
Dal catalogo D-Mail autunno 2006 - Idee utili e introvabili
AGGIORNAMENTO TEOLOGICO/POLITICO Esclusivo: IL PECCATO rivela i piani del Governo per l'adozione di un altro simbolo universale della cultura italiana da appendere accanto al crocifisso nelle scuole pubbliche:
LE CORNA!
Perchè rinunciare alla nostra cultura?
Sarebbero infondate le voci che vorrebbero, sempre nella stessa proposta di legge, l'obbligatorietà dell'ostensione del crocifisso appeso allo specchietto retrovisore delle automobili.
L'emendamento sembra essere stato fatto annullare dalla lobbie dell'Arbremagique timorosa di un calo delle vendite del suo deodorante.
Ecco alcune frasi, estrapolate dal contesto, di religiosi e uomini politici di tutti gli schieramenti sul SIMBOLO DELLE CORNA:
Card. Ersilio Tonini: "è il simbolo dei valori di fondo del nostro paese".
Giuseppe Pisanu: "è l'espressione più alta di 2000 anni di civiltà, che appartengono interamente anche al popolo italiano".
Roberto Maroni : "rappresenta millenni di storia".
Luca Volontè : "è il simbolo dei valori civili del nostro paese".
Luisa Santolini: "sono simboli delle nostre radici e della nostra storia".
Livia Turco: "non si può dimenticare la peculiare storia del nostro Paese e l'influenza che ha nella cultura e nel sentimento diffuso..."
Lo stupro è un crimine orribile e lo è ancora di più quando commesso contro i bambini.
Volevo scriverne ieri.
Poi non ho avuto tempo.
E oggi mi hanno ulteriormente deciso due cose: l'articolo di Natalia Aspesi su Repubblica e la crescente canea di gente di cinema/intellettuali/artisti, corsi in aiuto dello stupratore-pedofilo e reo confesso Roman Polanski.
Trovo intollerabile e disgustoso oltre ogni limite che lo status di "artista" possa creare una sorta di immunità morale e legale, trovo vergognoso che decine di persone celebri sottoscrivano appelli in favore di Polanski senza spendere una parola che sia una sulla sua piccola vittima.
Trovo suicida che una parte della sinistra (la mia sinistra) lisci il pelo (ne sia consapevole o no) ai pedofili d'alto bordo.
Il 1º febbraio 1978, Roman Polanski fu condannato da un tribunale americano per stupro nei confronti della tredicenne Samantha Geimer.
Da allora, per non finire in carcere, non è più tornato negli Usa.
Sabato è stato arrestato a Zurigo in base ad un mandato d'arresto degli Stati Uniti.
Da quel momento gente di cinema, artisti e intellettuali di tutto il mondo si stanno attivando per chiedere alla Svizzera di non estradarlo.
Tra i firmatari dell'appello Costa-Gavras, Wong Kar-Wai, Fanny Ardant, Ettore Scola, Marco Bellocchio, Giuseppe Tornatore, Monica Bellucci, Abderrahmane Sissako, Tony Gatlif, Pierre Jolivet, Jean-Jacques Beineix, Paolo Sorrentino, Michele Placido, Barbet Schroeder, Gilles Jacob, e Bertrand Tavernier.
Nel testo, firmato anche dalla Cinémathèque Française e dal Festival di Cannes, si scrive:
"I cineasti e autori francesi, europei, americani e del mondo intero ci tengono ad affermare la loro costernazione. E' inammissibile che una manifestazione culturale internazionale che rende omaggio a uno dei più grandi cineasti contemporanei possa trasformarsi in un trabocchetto della polizia".
Non una parola di solidarietà o di pietà verso la bambina stuprata.
Io sono convinto che le coscienze del "popolo di sinistra" abbiano in assoluto schifo i privilegi e gli abusi di casta.
Tanto più se questi privilegi diventano crimini contro i bambini.
E sono certo che a "noi di sinistra" faccia senso questo doppiopesismo secondo cui, se al posto del famoso e genialoide regista Roman Polanski ci fosse stato il grigio ragionier Mario Frontini, tutti i firmatari avrebbero invocato (il maiuscolo è d'obbligo) la Giusta Condanna del Colpevole nel Nome dei Diritti Calpestati dell'Infanzia Violata.
Ieri ho rivisto i Gremilins di Joe Dante.
Ha un quarto di secolo (è del 1984) ma non li dimostra per nulla: il suo impasto di humour, citazioni cinefile per adulti, gag per bambini, gran ritmo, horror, effeti speciali, fiaba nerissima, satira corrosiva, messaggio ambientalista, sberleffi sarcastici, tenera love story funziona ancora alla perfezione.
E Steven Spielberg produttore non riuscì a imporre la propria melassa a Joe Dante regista: basti pensare al momento in cui Phoebe Cates racconta il piccolo ma cupo episodio del padre-Babbo Natale.
Restano memorabili (tra le tante) le sequenze della lotta nella cucina (tra frullatore, albero natalizio e forno a microonde), i Gremlins che si ubriacano sconciamente nella Taverna e (assolutamente geniale) il cinema affollato dai Gremlins che cantano in coro la canzone dei Sette Nani.
Uno di quei film che, col passare del tempo, crescono.
L'ho appena saputo.
E' morto Tullio Kezich, critico, scrittore, triestino, antifascista, antinazionalista.
Con i suoi libri e soprattutto le sue recensioni cinematografiche (spesso non ero per nulla d'accordo, e anche a distanza di anni mi capita di arrabbiarmi per molti suoi giudizi) sono cresciuto: le leggevo e rileggevo avidamente, prima sui giornali e poi raccolte in volume.
Non l'ho mai conosciuto di persona ma gli volevo bene come a un vecchio zio.
Stamattina ho vissuto un breve e intenso, anche se ridicolo, caso di coscienza.
Per poterlo capire, dovete almeno sapere sapere:
- Brian De Palma è uno dei registi che prediligo,
- il suo ultimo film Redacted (contro la guerra in Iraq, boicottato dai distributori, mai uscito al cinema) non l'ho ancora visto,
- non compro il berlusconiano Panorama da una ventina d'anni almeno.
Stamattina vado in edicola: Repubblica, Unità, Piccolo, Espresso, Fumo di china (mensile di critica sui fumetti)...poi come sempre mi guardo in giro e mi cade l'occhio su Panorama.
In allegato, c'è Redacted.
Il primo impulso è: che bello! Stasera me lo guardo con Tatjana.
E poi domani o tra due giorni me lo rivedo con calma e mi rigusto la regia di Brian.
Così la parte cinefila di me prende in mano la copia del settimanale e dà ordine di tirar fuori gli euri necessari all'acquisto.
Ma a quel punto la parte politica di me si desta dal torpore e interviene: "ehi! Non ti comprerai mica Panorama, no?"
"Ma c'è Redacted..."
"Ci sia quel che ci sia, ma tu i giornali berlusconiani non li compri. Punto e basta"
"Ma..."
"E poi ragiona, cretino...Tra giornale e dvd vengono quasi sedici euro. Se dopo vai al negozio di video di via Roma, trovi il dvd più o meno alla stessa cifra e senza l'umiliazione di dover acquistare anche quelle paginacce. E senza la vergogna di doverci tenere a casa il film di De Palma sconciato dalla confezione con su scritto Panorama"
"E' vero..."
"Certo che è vero"
"Non ci avevo pensato..."
"Perchè voi consumatori cinefili tendete al cretinoide. Noi, la parte politica, saremo anche faziosi, ma voi siete scemi"
Insomma, Panorama è rimasto sul bancone dell'edicola.
E il film me lo compro in videoteca.
Gli amerikeni (da non confondersi con gli americani) hanno fatto un sondaggio.
Consultati i frequentatori delle videoteche e gli scaricatori di film da Internet, hanno chiesto quai siano i migliori film di sempre.
Risultati: Guerre stellari, Gladiatore, Signori degli anelli, Pretty woman, Matrix...
L'ignoranza è andata al potere.
Ieri abbiamo visto in dvd "Storie di fantasmi cinesi" di Ching Siu-Tung. Del 1987, primo episodio di una trilogia, è un film delizioso, gustoso impasto di fiaba, romanticismo, comicità, horror e parodia.
Nell'antica Cina, un giovane e poverissimo esattore delle tasse va in giro per i villaggi a riscuotere le imposte. Arrivato in una regione in cui stanno accadendo fatti tenebrosi, conosce una ragazza. Tra i due esplode l'amore.
Però lei è lo spirito di una defunta che si incarna di notte per procurare vittime a un'orribile entità in procinto di sposarla.
Il suo innamorato cercherà di salvarla (e lei di salvare lui).
Questo il canovaccio della trama (tratta da un vecchio racconto cinese). Ma ciò che conta per davvero è la messa in scena: colori e scenografie scintillanti, effetti speciali convincenti, attori all'altezza (uno spasso il guerriero taoista che aiuta il giovane...il suo notturno balletto rap prima della battaglia è eccezionale), cinepresa morbida e onirica, dialoghi pieni di ironia, vampate di erotismo, continui ed efficaci scivolamenti da un genere (fantastico e sentimentale, avventuroso e comico) all'altro.
Il film riesce a reggere il difficile equilibrio tra ingenuità e consapevolezza. E guardandolo i minuti scorrono via come quando, da piccoli, ci raccontavano fiabe che ci spaventavano e ci calmavano, lasciandoci in bocca un retrogusto di mondi impossibili, incantati e perduti per sempre.
Meno che alla fantasia.
Ci sono scrittori che semplicemente si leggono, altri che si leggono e poi si rileggono.
Nel reame dell'horror, Stephen King lo leggo ma poi non mi riavvicino più ai suoi libri.
Invece alle opere di Clive Barker torno e ritorno.
Prendiamo In collina le città: uscito nel 1984 nel primo volume dei Books of blood (in italiano tradotto demenzialmente con Infernalia), l'ho letto e riletto non so quante volte e credo sia uno dei più possenti racconti dell'intero Novecento. In trenta pagine mette in scena una originalissima metafora del totalitarismo: anni prima della disintegrazione nazionalistica della ex-Jugoslavia, Barker con profetica genialità medianica ambienta il suo racconto in Bosnia. E mescolando la condanna della passività degli intellettuali ed echi della pittura di Arcimboldo, fantasia scatenata e lucidità narrativa, fa deflagrare una novella sconvolgente e indimenticabile.
Mia moglie (che detesta l'horror) l'ha letta una quindicina di anni fa e non se l'è più scordata.
Perchè Barker crea horror e fantasy (libri, quadri, testi teatrali, film) distanti anni luce dai canoni tradizionali.
Comicissimo ma anche capace di fantasie davvero perverse, realistico ma visionario come il miglior Salvador Dalì, non ha nulla a che fare con Stephen King (a cui lo accostano spesso giornalisti pigri e incompetenti): l'americano del Maine continua a raccontare storie sul Bene e sul Male, mentre all'inglese di Liverpool non gliene importa nulla, del Male e del Bene. E si occupa invece della Carne, dal punto di vista erotico, simbolico, metafisico, orrorifico, sentimentale e mistico.
Due titoli come esempio.
Il micidiale racconto Paura in cui uno studente fa esperimenti psicologici su amici e conoscenti. Sottoponendo le vittime a torture psichiche incentrate sulle fobie di ognuna di esse. Non per sadismo bensì per capire la paura degli altri e quindi vincere il proprio incubo più profondo. Un giorno, prende di mira una ragazza vegetariana...
Il romanzo Sacrament: dopo anni spesi all’inseguimento delle proprie segrete ossessioni cercando di esorcizzarle attraverso reportages su animali in estinzione, discariche e indizi della fine del mondo, un fotografo gay ha un incidente e finisce in coma. Riemergono così i suoi ricordi più nascosti che si allacciano alla Creazione e ai lontani miti dell'umanità.
Ieri sera ho ricominciato Il canyon delle ombre, un thrilling sulla mitologia del cinema, su Hollywood, sull'amore (la parte dedicata al cane è struggente), sulla possessione, sulla brama di immortalità.
E poi tornerò ai due (sui quattro progettati) libri di Arabat, fantasy per ragazzi di sfrenata inventiva, arricchiti da meravigliose ad acquarello (sempre di Barker). Aspettando che si decida a far uscire il terzo e il quarto volume.
Scrive il New York Times di oggi:
"Gran parte del successo di Berlusconi nasce dalla sua abilità di leggere gli umori del Paese. Ora molti si chiedono se finalmente non abbia fatto un calcolo sbagliato e non stia spingendo troppo in là i tolleranti italiani, e se la sua reputazione di fine carriera non somigli sempre più alla decadenza imperiale del Satyricon di Fellini"
Condivido.
Solo poco, però: il pelo sullo stomaco degli italiani è foltissimo e non è dovuto a tolleranza ma a cinica amoralità.
Però mi faccio anche un'altra domanda: il NYT sa che il film di Fellini fu tratto da un romanzo del Primo secolo d.C.?
E purtroppo il libro del grandissimo Petronio Arbitro ci è arrivato incompleto.
Stasera me lo riprendo (non in latino, che dai tempi del liceo non sono più in grado di leggere, ma nella versione di Piero Chiara).
Dove, durante la famosa cena, il ricco e ignorantissimo Trimalcione (soprannominato Silvius...deduzione mia ) dice: "Vi racconterò qualcosa da non credersi, come la storia dell'asino che vola. Sono stato anch'io ciò che siete voi, ma per mio merito sono arrivato qua dove sono...tutto ciò che toccavo cresceva come un favo...Tu poi non fare la gelosa: sappiamo come siete voi signore. Da giovane non ero forse solito sbattere la mia padrona a tal punto da insospettirne il marito? Ma taci, lingua mia, che è meglio"
E il protagonista io narrante Encolpio commenta: "C'è da vergognarsi, a raccontare quel che seguì"
Ieri sera ho fatto scoprire a Tatjana Il pianeta delle scimmie.
Un famoso film di fantascienza del 1968 diretto da Franklin J. Schaffner, interpretato da Charlton Heston.
Io l'avevo già visto non so quante volte, mentre mia moglie mai (non è proprio un'appassionata del cinema fantastico, anche se pian piano gliene faccio conoscere alcuni aspetti).
Tre astronauti americani, dopo un lungo viaggio nello spazio, arrivano in un pianeta lontanissimo dalla Terra. Scoprono che le scimmie sono la specie dominante e gli umani schiavizzati come animali inferiori.
Dopo 41 anni, il film regge assai bene (qualche inciampo e alcune goffaggini nella parte centrale, ma è splendida l'iniziale esplorazione del pianeta, eccellente l'attacco delle scimmie a cavallo, grandiosi gli ultimi tre/quattro minuti, uno dei finali più potenti che io conosca).
Ed è intatta la carica pacifista, antirazzista e animalista, intrisa di dolente ironia e di irriverenti sberleffi.
Anzi: dopo quattro decenni alcuni attacchi al dogmatico fondamentalismo religioso sembrano ancora più attuali.
Un film meritatamente celebre.
Qualche anno fa, ho visto (e quasi dimenticato) il remake fatto da Tim Burton: più soldi, più mezzi, più pop-corn, più presunzione.
Negli anni Sessanta e Settanta, quando la televisione aveva un canale o al massimo tre, ho visto in tv centinaia di film classici: Ford, Welles, Kurosawa, Wilder, Ejsenstein, Clair, Rosi, Antonioni, Fellini, De Sica, Zinnemann, Renoir, Monicelli, Fuller, Risi, Hawks, Houston, Walsh, Hitchcock, Losey...
E Fritz Lang.
Spesso, all'inizio e alla fine del film, c'era un critico che lo commentava.
Poi (quando le televisioni si moltiplicarono e i canali divennero prima decine e poi miliardi) i film classici scomparvero.
Al massimo, di notte, a Fuori Orario.
In questo modo, con pochissimi mezzi, un adolescente della mia generazione conobbe il grande cinema. Mentre un adolescente di adesso ha tantissimi mezzi ma non sa nulla dei classici.
E dunque, privo di senso della prospettiva, pensa che Tarantino sia il più grande regista della storia del cinema.
Ma per fortuna esistono i dvd (e la Rete, anche se io non scarico mai nulla).
E in dvd, pian piano, sta uscendo tutto Fritz Lang.
Riguardandolo dopo decenni, rivedo un grandioso regista, che faceva film inquietanti e inesorabili, ancora oggi (e forse più di ieri) ricchi e appassionanti: M Il mostro di Dusseldorf, Metropolis, Il grande caldo, Furia, la donna del ritratto, Il testamento del dottor Mabuse e tanti altri.
E ho visto anche il dittico che non potei vedere da ragazzo: uscito al cinema negli anni Cinquanta, massacrato dalla censura, mai passato in tv, mai stampato in vhs, è finalmente arrivato in dvd (un cofanetto della Jubal e Dna). La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano sono un unico grande film diviso in due puntate.
Ambientato (e girato per davvero) in India, è un racconto barocco e lussureggiante, pieno di azione e di intrighi, con dei lampi di conturbante erotismo (la splendida danza della seminuda Debra Paget davanti al cobra scomparve completamente, mozzata dalle forbici dei censori...la conoscevo solo di fama e da quarant'anni sognavo di vederla...confermo che sono dei minuti magistrali), sequenze (i lebbrosi nelle caverne che ha ispirato gli zombi) che anticipano il futuro del cinema, ambienti tenebrosi o sgargianti che hanno influenzato lo Spielberg di Indiana Jones, scene di vibrante tensione (il fachiro e le spade, lo strangolamento del sicario, il combattimento con la tigre), un senso dello spazio e del movimento che lascia a bocca aperta. E non potevo credere ai miei occhi: com'era possibile una fotografia così plastica e nitida? Tale da far schizzare fuori dallo schermo i personaggi, gli ambienti e gli sfondi? Come fu possibile una simile straordinaria colorazione?
Insomma, Fritz Lang è tornato nella mia vita.
E ne sono felice come un adolescente.
Lo sto rileggendo con un gusto sfrenato.
La prima volta, lo divorai quattro anni fa e poi lo consigliai in giro, quando uscì in Italia per Rizzoli (un disastroso fiasco di vendite e il silenzio mediatico).
Piacque anche a chi si fidò di me: alla fin fine, solo mia moglie Tatjana e l'amico e scrittore Alberto Ongaro. La congiura delle ombre è un romanzo sul cinema, il fascino e l'amore per il cinema, l'occulto potere che promana dalle sue immagini in movimento.
Venne scritto nel 1991 da Theodore Roszak, storico della cultura e docente universitario della California State University, teorico della ecopsicologia (studia i rapporti tra essere umano e ambiente. Nata dalla constatazione del crescente disagio psicologico individuale e collettivo, personale e sociale, lo mette in correlazione con il corrispondente aumento del degrado ambientale).
Affine per certi temi allo sciattissimo Codice Da Vinci, il romanzo di Roszak è tante cose insieme: un complesso racconto del mistero (quali segreti si nascondono dentro i film del regista tedesco Max Castle? Cos'è l'Oculus Dei? Perchè Welles non portò a compimento il progetto di Cuore di tenebra?), una documentata e appassionata ricostruzione dell'ambiente cinematografico degli anni Trenta-Cinquanta (mettendo in scena Orson Welles, Fritz Lang, Jean-Paul Sartre e tanti altri personaggi autentici), una storia di attrazione erotica, un'avventura nei profondi sotterranei dell'inconscio, una competente serie di teorie sul cinema, uno sconcertante svelamento dell'autentica fascinazione dei film, un incalzante e inquietante thrilling, la rivelazione di un enigma sepolto per secoli.
Io che amo smodatamente il cinema, sono rimasto elettrizzato dalla Congiura delle ombre.
Se lo leggerete, spero piaccia anche a voi.
In tre giorni ho visto un film fresco e fuori moda girato da un uomo anagraficamente vecchio e un film logoro e modaiolo girato da un uomo anagraficamente giovane. Gran Torino di Clint Eastwood mi ha emozionato e colpito a fondo, fatto ridere e commosso: è il cinema che prediligo, storie solide raccontate senza fronzoli da qualcuno che ama sul serio ciò che sta girando. Watchmen di Zack Snyder mi ha tediato e irritato: è il cinema che mi dà ai nervi, tutto estetismo e fracasso, fumoserie filosoficheggianti per sembrare importanti accostate a spaventose cadute di gusto.
Sul film di Eastwood non aggiungo nulla se non questo: è uno di quelli che mi porterò nel cuore per tutta la vita.
Voglio invece dire qualcosa su Watchmen.
1) L'opera a fumetti di Moore/Gibbons/Higgins è (a mio avviso) un capolavoro, un libro da leggere e rileggere, per coglierne la complessità le sfumature, le sottotrame, la ricchezza dei personaggi, la densità dei temi, la grandiosità dello scenario.
2) Il film somiglia troppo e troppo poco all'originale. Certe sequenze sono la trasposizione cinematografica esatta delle tavole: il risultato è imbarazzante, perchè impoverisce testo e immagine.
3) Esiste un grande equivoco: la trasposizione cinematografica di un fumetto NON equivale (e tantomeno è più comoda. Anzi!) a quella di un romanzo. Per un motivo molto semplice: perchè nel primo caso si parte da un modello visivamente già strutturato, con personaggi e ambienti già delineati, sequenze visive già organizzate e ritmate. Cosa che per un romanzo non accade (o almeno non in modo così debordante). Ecco dunque che QUALSIASI trasposizione di un fumetto (tanto più se celebre) dovrà far i conti con gli inevitabili confronti: il Tizio del film somiglia al Tizio delle tavole? E la Calpurnia del film perchè è così diversa dalla Calpurnia della striscia? Insomma, ciò che abbiamo visto (le tavole di un fumetto) ci condiziona e ci limita assai più di ciò che abbiamo solo immaginato (le scene di un romanzo). E allora io penso questo: il fumetto da cui si parte per farne un film va modificato da cima a fondo. Cosa che Snyder non fa. Se non a tratti. E quando lo fa, lo fa male.
4) Ogni tanto mi sono annoiato e stavo per addormentarmi: in particolare le scene di combattimento (praticamente assenti nell'originale) sono moleste, lunghe e fuori luogo.
5) Alcune sequenze (ad esempio l'iniziale assassinio del Comico) hanno un eccesso di violenza esibita fastidiosa, già vista e rivista in cento filmucoli popcornizzati. La sobrietà dell'originale Moore/Gibbons era di gran lunga più efficace e impressionante.
6) Ci sono delle cadute di stile imbarazzanti (dopo l'amore sull'Archie quella scia di fuoco che esce dalla navicella...).
7) Il film risente pesantemente dell'estetica da video-clip e da spot pubblicitario, tanto che sembra l'assemblaggio di tanti sub-film, alcuni dei quali riusciti (la parte dell'incidente del dottor Manhattan), altri fallimentari (l'attacco alla prigione). Stesso discorso per le musiche raffazzonate: alcune di quelle note (Dylan, Hendrix, Cohen, Simon & Garfunkel) bene o male funzionano ma quelle scritte appositamente per il film sono orribili e fracassone. E l'idea di commentare una sequenza vietnamita con la Cavalcata delle Valkirie (come in Apocaliplse now) fa pità. Insomma: l'insieme dei video-clip non tiene, non ha nè ritmo nè crescendo.
8) Il film è un'occasione sprecata: il denaro c'era, i mezzi produttivi pure, gli attori e i costumi e le scenografie e gli effetti speciali anche, la sceneggiatura non è male (sintetizzare la complessità dell'originale era impresa ardua). Il flop sta in molte scelte del regista Snyder.
9) Che si conferma un mestierante (che a me neppure piace), un mercenario con tanti soldi ma senza arte nè parte, non un autore con qualcosa da dire.
10) Il giorno prima avevo (impietosamente) visto il film di Eastwood: un autore vero con molto da dire. E il confronto mi dice: il cinema modaiolo e modernista di Snyder nasce sterile, tra qualche anno sarà un ferro vecchio sorpassato da altra roba più modernista e modaiola. Mentre il cinema di Clint (e di altri autori di valore) reggerà.
In dvd mancano film come Le mani sulla città (il massacro politico edilizio di Napoli, un'opera del 1963)
o Il caso Mattei (una complessa inchiesta del 1972 sulla misteriosa morte del potente presidente dell'Eni che era scomodo per mafia e Usa).
Anche in questo, nella mancata valorizzazione del nostro miglior cinema civile, siamo un paese di cialtroni.
Ieri sono andato a vederlo.
E m'è piaciuto.
Quattro episodi più una cornice (assai inconsistente).
La prima storia (tre famiglie che partono per le vacanze) è la solita e tipica cosa alla A G & G, anche se un po' inceppata.
Ma con la seconda (ambientata in una parrocchia) cominciano ad arrivare elementi interessanti (ed è ottimo il sacrestano Giovanni).
La terza (i quadri famosi che si animano) ha spunti bizzarri.
Ma il quarto episodio (Temperatura basale) m'ha convinto in pieno, divertente, graffiante e ben scritto: mentre Aldo e Giovanni riescono a fare figli senza problemi, Giacomo e la moglie hanno difficoltà, dato che i suoi spermatozoi sono svogliati. Ed ecco la storia dei tentativi per ottenere una gravidanza. Tra medici molesti e dal doppio cognome (eccezionale Angela Finocchiaro), dottori ayurvedici, insegnanti di Kendo, rassegnazione che monta (anche perchè i figli degli altri sono un disastro), finchè...Qui Giacomo Poretti è molto bravo, ben aiutato da alcune riuscitissime figure femminili (la Finocchiaro, la seconda dottoressa, la vigilessa in moto, la moglie).
E (come spesso accade nei loro film) A, G & G impiegano delle attrici deliziose (che si mangiano tutte le bellone patinate): in particolare Sara D'Amario (la moglie in Temperatura basale) e Isabella Ragonese (la ragazza del Treno dei peccati)
Non c'entrano le qualità artistiche, nè l'importanza nella storia del cinema, nè la grandezza in assoluto:
qual'è il film che amate di più?
Io rispondo senza esitazioni:
Il fantasma del palcoscenico (di Brian De Palma)
Eccone il trailer originale: http://www.youtube.com/watch?v=2n5qVJEg3qA&feature=related
Vi segnalo in vendita con l'Internazionale in uscita oggi un documentario bizzarro e a suo modo geniale: The pervert's guide to cinema (diretto da Sophie Fiennes).
Ideato dal filosofo sloveno Slavoj Zizek, è un film che conoscevo solo di fama e che non vedevo l'ora di guardare.
Intanto perchè Zizek è uno dei pensatori più originali di questi anni: fuori da ogni schema anche se lacaniano e marxista, dotato di uno stile scintillante che alterna dense riflessioni e storielle umoristiche, analisi complicate (a volte incomprensibili) e chiarissime sintesi, esempi illuminanti tratti da Matrix o dai film di Hitchcock o di Lynch e lucidi interventi sull'attualità (abbastanza famoso il suo studio sull'Ovetto Kinder), è autore di libri che lasciano il segno.
Ne ricordo due: Il cuore perverso del cristianesimo in cui lui, ateo, traccia una grande apologia del cristianesimo, l'unica religione ad avere il coraggio ("Dio mio, perchè mi hai abbandonato" grida Gesù sulla croce) ad avere il coraggio di dubitare di se stessa, mettendo sulla scena del Mondo un Dio non onnipotente. In questo, Zizek riprende le riflessioni (tra gli altri) di Gilbert Keith Chesterton e di Hans Jonas.
E "Benvenuti nel deserto del reale", una brillante raccolta di interventi giornalistici.
In questo documentario, a quel che ne ho letto, Zizek parla di cinema e di filosofia, usando i migliori e peggiori film della storia, i più intellettuali e i più popolari, entrando e uscendo direttamente lui stesso in alcune sequenze (come ad esempio la scena della cantina in Psycho, dove lui compare sbucando dall'armadio)
Io, il suo cinema non l'ho mai sopportato.
Nè ho mai retto la spocchia di Spike Lee (che fa il rivoluzionario ma qualche anno fa, per uno o due pugni di dollari, diresse uno spot pubblicitario commissionatogli dalla marina militare statunitense).
E adesso la trama del suo recente film sulla strage nazista di Sant'Anna di Stazzema mi pare una cazzata (è tutta colpa di antiche ruggini tra partigiani).
Così come mi sembrano assai brutte le immagini del trailer visto in tv.
Inoltre, le dichiarazioni ignorantissime e presuntuose rilasciate in questi giorni da Spike Lee a proposito di Resistenza, fascisti, partigiani, nazisti e Italia mi confermano nella mia profonda antipatia per l'uomo e il suo cinema.
Stasera mi guarderò qualcosa di bello.
Che so...un John Ford, un Howard Hawks, un Billy (da non confondersi con Gene) Wilder, un Kubrick, un Dino Risi, un Brian De Palma, un Kurosawa, un Michael Cimino, un Clint Eastwood regista...
Per togliermi il cattivo retrogusto di questa bruttissima polemica, sulla quale si butteranno a pesce gente come Pansa Battista Galli della Loggia Polito Vespa Fede Ferrara La Russa Cossiga Gasparri Mieli Buttafuoco Valdevit e compagnia cantante.
Ieri con l'Espresso è uscito in dvd questo film del 1971.
E rivederlo adesso, trentasette anni dopo, fa impressione.
Dopo la misteriosa morte di una ragazza, un magistrato coraggioso (Tognazzi) sospetta un turpe industriale, potente, inquinatore e fascistoide (Gassman).
Intorno a loro, formicola un'Italia che sta andando in putrefazione.
Gli sceneggiatori Age e Scarpelli e il regista Dino Risi raccontano tutto con acre umorismo e attraverso fuliminanti gag: testimoni che parlano con un ridicolo linguaggio orecchiato alla televisione, genitori oscenamente ipocriti, figlie allo sbando, pulsioni repressive, immondizie dappertutto, mare avvelenato dagli scarichi tossici, uffici pubblici allo sbando, traffico impazzito, cataloghi di prostitute, cialtronesche esibizione di ricchezza, sfacciata impunità per i ricchi, avvocati maneggioni, mascalzoni che se accusati si atteggiano a vittime di un complotto giudiziario, prelati e politici affaccendati, un uso truffaldino delle parole, er popolo totalmente rimbecillito dalla tv e dal calcio.
Due attori in gran forma e affiatatissimi (Tognazzi in apparente, solo apparente!, sottotraccia e Gassman in pieno tsunami), tanti comprimari con facce che riempiono lo schermo, una rabbia morale e civile che gonfia ogni inquadratura, certe sequenze corrosive (Gassman che va all'interrogatorio vestito da antico romano,
il confronto tra magistrato e industriale sulla spiaggia), battute a raffica, alcuni momenti di memorabile cattiveria (la feroce lite col padre malato), la solita regia sobria e inesorabile di Risi, un finale che sembra scritto e girato nel 2008.
Val proprio la pena di comprarlo e guardarlo.
(Anche se l'edizione lascia abbastanza a desiderare: colori smorti, sonoro fiacco, formato video col quadro tagliato in modo indecente sia ai lati che orizzontalmente).
Però pazienza: ottantamila volte meglio un bellissimo film di Dino Risi
non restaurato piuttosto che il prossimo Rambo XIV contro Rocky XII nella guerra stellare di Harry Potter
Ieri sera abbiamo guardato in dvd Helzapoppin'.
Tatjana non lo conosceva e io non lo rivedevo da anni.
Il film (del 1941)
è il padre del cinema demenziale e dell'umorismo assurdo: da qui (oltre che da Laurel & Hardy e dai fratelli Marx) nascono Mel Brooks e i Monty Python, la Gialappa's Band, il primo Woody Allen e tanti tanti tanti altri.
In ottanta minuti succede di tutto: roba da circo, giochi di parole, parodia delle commedie sentimentali, teatro degli equivoci, cinema nel cinema, sorprese nelle inquadrature, imbarazzanti ingenuità, perfide cattiverie, allusioni sessuali, animali in scena, pagliacciate, anticipazioni del Peter Sellers della Pantera Rosa e di Hollywood Party, battute strabilianti, scemenze geniali, fesserie cretinissime, gag da scompisciarsi.
Un capolavoro assoluto?
Putroppo no.
Perchè il regista (Henry Potter) era un modesto mestierante, i comici protagonisti (Ole Olsen e Chic Johnson) una coppia scadente, i comprimari quasi tutti insulsi e alcuni numeri musicali inutili e noiosi.
E allora? Come si spiega il miracolo attraverso cui Helzapoppin' è un film memorabile? Presto detto: una strabiliante quantità di gag sparate a ritmo vertiginoso, certi attori formidabili (il lettore di gialli che starnuta potrei rivederlo mille volte), un clima pazzamente anarchico e insensato che di tanto in tanto fa l'occhiolino al sublime.
Appena esce in Italia (il 16 ottobre), corro a vederlo.
E' il nuovo film d'animazione prodotto dalla Pixar.
La storia di un WALL•E (Waste Allocation Load Lifter Earth-Class, Sollevatore terrestre di carichi di rifiuti), in pratica un robot-spazzino.
Gli uomini hanno lasciato la Terra, disastrata e rovinata dalla nostra follia di predaori, ma si sono dimenticati di spegnere Wall.E.
Che da centinaia di anni continua imperterrito a fare il proprio lavoro: pulisce quel che può, fruga nella spazzatura, raccoglie cianfrusaglie,
colleziona vecchi film.
Finchè un giorno...
Da quel che ne ho letto su alcuni articoli (e visto nel trailer), mi pare bellissimo: un impasto di humour, tenerezza, messaggio ambientalista, love story, avventura, fantascienza.
Sul Web trovate il trailer di un minuto e mezzo.
Però fate attenzione: come quasi tutti i trailer di questi anni, anticipa troppo.
Quanto mi piace il suo cinema.
Il sorpasso, Una vita difficile, I mostri, Il vedovo, Un'anima persa...
Dei registi italiani, è forse quello che ho amato di più: ha raccontato il nostro paese con un gusto, uno humour e un'intelligenza che pochi hanno avuto.
E oggi Dino Risi se n'è andato a novantun anni.
Lo ricordo con una frase che citava spesso (e che traggo da un suo libro del 1993: Italiani siate seri!, pubblicato da Gremese): "La morte ci ha a trovar vivi"
Siamo andati a vedere IL DIVO. Pareri contrastantissimi:
- Tatjana irritata per lo stile barocco e visionario, espressionista e grottesco, di molte sequenze. E per l’intepretazione gelido/caricaturale di Toni Servillo,
- io entusiasta proprio per gli stessi motivi (però riconvertiti al positivo),
- Walter e Patrizia complessivamente soddisfatti.
Il film non è perfetto (quindici minuti di sforbiciate gli farebbero un gran bene: la parte quasi da inchiesta giornalistica con i mafiosi è del tutto fuori registro, anche perché distoglie l’attenzione da Andreotti, che è il centro del labirinto del DIVO. Così come il personaggio di Fanny Ardant potrebbe venir eliminato senza alcun danno…ma forse era un ammicco ai francesi. Mi chiedo pure quanti riferimenti possa cogliere chi non conosce bene la politica e la storia italiana degli anni Settanta, Ottanta, Novanta).
Ma detto questo, viva Paolo Sorrentino e il suo film! Alcune sequenze memorabili (gli omicidi iniziali, lo skateboard che prelude alla strage di Capaci, le passeggiate di Andreotti all’alba nella Roma che si sta risvegliando, la presentazione del “mucchio selvaggio” della corrente andreottiana, , la festa a casa di Pomicino, il bacio con Riina, la veglia alla salma di Evangelisti), un gusto visivo che ricorda certe deformazioni di Fellini, uno humour corrosivo che discende dalla miglior commedia all’italiana, l’intelligenza di saper accogliere nella sceneggiatura anche le ragioni di Andreotti e del potere più tenebroso.
E stasera, andiamo a vedere Gomorra.
Ha un quarto di secolo giusto giusto, dato che David Cronenberg lo girò nel 1983.
Rivisto con gli occhi del 2008, Videodrome è un film potente e geniale sulla televisione: un horror politico lontano anni luce dalle banali pellicole splatter prodotte in serie per spettatori popcornizzati.
Il proprietario di una televisione privata è alla ricerca di un programma forte che possa risollevare l'audience. Si imbatte in Videodrome, che trasmette su frequenze illegali scene di torture e di omicidi. Il suo viaggio alla scoperta del programma sarà completamente sconvolgente.
Per chi è anestetizzato dai ritmi supersonici del cinema fracassone che va di moda, Videodrome sembrerà lento, ma è una lentezza solo apparente perchè in realtà è densa di suspense e di metafore. Per chi è abituato dalle orgie di effetti speciali (che essendo onnipresenti, speciali non sono più), Videodrome sembrerà povero, ma Rick Baker (che cura i trucchi) ne spara alcuni memorabili, pochi ma assolutamente eccezionali e indimenticabili.
Certo, nel film non tutto funziona: la sceneggiatura scricchiola, alcune sequenze sono rozze, la trama ha dei buchi vistosi. Ma onore a Cronenberg, ai protagonisti James Woods e Deborah Harry,
a tutti i comprimari, allo staff tecnico, ai produttori, per essersi imbarcati in un'operazione così coraggiosa e impopolare: attaccare con brutale ferocia il potere della televisione. Che si sta impossessando delle nostre menti, delle nostre anime e (aggiunge orrendamente il film) anche dei nostri corpi.
Ieri abbiamo guardato in dvd Zodiac
di David Fincher.
Come avessimo visto due film totalmente diversi: nelle due ore e mezza, io e Tatjana inchiodati alla poltrona, suo figlio Milos e la ragazza Petra annoiati.
La storia è quella (tragicamente vera) del misterioso e sanguinario serial killer che tra gli anni Sessanta e i Settanta terrorizzò la California.
I punti di vista attraverso cui seguiamo la vicenda sono molti ma alla fin fine i protagonisti sono il poliziotto incaricato delle indagini e un vignettista appassionato di enigmi.
La caccia durerà anni e in modi diversi e con differenti motivazioni entrambi metteranno a repentaglio le proprie reputazioni e le proprie vite per dare un volto e un nome all'assassino.
Come si concluda il film, non ve lo dico.
Certo: se uno vuol vedere un giallo fatto di inseguimenti sparatorie scazzottate esplosioni e musiche fracassone, è meglio che lasci stare Zodiac perchè rischia di farsi una dormita.
Se invece vi interessa un'opera sulla banalità del male e sull'ossessione per la ricerca della verità, sequenze dalla suspense ipnotica e senza nessuna truculenza, una sceneggiatura veloce ed elittica, un mistero incalzante e sfuggente, Zodiac è un gran bel film.
Ieri sera abbiamo guardato Il nascondiglio di Pupi Avati. Del regista emiliano mi affascina la doppia anima: da un lato commedie graffianti e amare, dall'altro nerissimi thrilling. La casa dalle finestre che ridono, Zeder, L'arcano tentatore, il televisivo e terrificante Voci notturne (perchè non ne fanno un'edizione in dvd?!) restano fra gli horror (non solo italiani) più interessanti di questi decenni.
Anche Il nascondiglio (del 2007) è un film del mistero e di paura. Ambientato nell'Iowa, con una brava Laura Morante,
del tutto privo di effettacci truculenti, lascia brividi persistenti. L'avvio della trama è presto detto: nel 1957, in una casa di riposo per anziane, vengono commessi degli inspiegabili delitti che la polizia non riesce a decifrare. Mezzo secolo dopo, una donna (Laura Morante) viene dimessa dalla clinica psichiatrica in cui era stata ricoverata per una grave forma depressiva a seguito del suicidio del marito. Vuole realizzare il proprio sogno: aprire, lei italiana, un ristorante italiano. Le viene proposta (l'affitto è bassissimo) la vecchia casa disabitata dal 1957. Gli ambienti sono molto suggestivi, il prezzo superconveniente e così lei firma il contratto.
Non vi dico altro. Se non che secondo me uno (ma solo uno) dei possibili riferimenti e delle possibili chiavi di lettura del film è Il giro di vite di Henry James. Ma mia moglie Tatjana non era d'accordo con me.
Intanto qualcun altro ha trovato un nascondiglio.
E allora una mia amica ha scritto questa lettera al sindaco di Milano Letizia Moratti che gioca a nascondino. Il 25 aprile 1945 chi le scrive aveva da poco compiuto cinque anni e si trovava in Romagna con i nonni, separata da tempo dalla sua famiglia dalla Linea Gotica che divise l’Italia e i nostri destini. Il 26, i partigiani entrarono a Torino e in quel giorno la sorellina, nata nel frattempo, compiva il suo primo anno di vita. L’esperienza terribile della guerra (quanti bombardamenti subiti a Torino!) e l’”abbandono” dei miei genitori, hanno segnato profondamente il mio percorso di vita. L’abbandono involontario e incompreso da una bimba di quattro anni, si tramutò poi al rientro in famiglia in una esclusione che perdura ancora e che mi ha resa agli occhi dei miei per sempre diversa. Quel vissuto però, oltre a contrarmi il diaframma in una morsa di paura, ha reso più acuta la mia sensibilità e sviluppato un profondo senso morale che mi fa onorare la pace e combattere l’ingiustizia. Figlia del popolo, ho potuto studiare e colmare quindi con la cultura il divario che mi discriminava rispetto ai miei coetanei agiati. Quella cultura che ho cercato di trasmettere ad altri, mi permette ora di leggere un segnale inquietante nella sua scelta di non partecipare alla celebrazione della festa della Liberazione che sta a testimoniare il riscatto morale di un popolo. Non tutto è stato limpido, non tutti i partigiani si sono comportati da eroi, ma nella stragrande maggioranza hanno dato la vita o l’hanno rischiata perché noi potessimo godere oggi di quella libertà che ha permesso a lei la sua discutibile scelta. Lei ha mancato di rispetto nei confronti di tanti suoi concittadini. Che lei viva dentro di sé a livello personale questo rifiuto della Resistenza (che ha visto allora una partecipazione corale di tutte la fasce sociali) per me è già triste, ma è oltremodo preoccupante che l’abbia manifestato nella sua veste ufficiale. Quando si ricoprono incarichi istituzionali, si acquisiscono doveri a cui non è possibile sottrarsi. Gli atei vanno in Vaticano, partecipano a funerali religiosi. Lei, magari a muso duro, con la sua fascia tricolore avrebbe dovuto esserci. Giovanna Falcioni
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