Oggi è il 1° marzo 2010, sciopero degli immigrati.
E io spero di farvi sorridere con un racconto che ho scritto un paio d'anni fa per l'Unicef.
L’UOMO NERO DEI BRACCIALETTI
Questa è la storia della guerra che noi ci combattemmo per due mesi, dei disastri che facemmo e di come l’uomo dei braccialetti li fece finire.
Ma per prima cosa le presentazioni: il mio nome è Michele Crismani e abito a Trieste con mio papà, mia mamma, il gatto Groucho e il cane Orsobimbo. Adesso ho tredici anni, ma quando successe tutto quell’ambaradan ne avevo nove. E vi devo confessare che io non sono mai stato un p.n. (premio Nobel), perché nemmeno in quel tempo mi piaceva andare a scuola nè studiare. Così, invece delle mattine chiuso in classe, preferivo i pomeriggi che passavo con i miei amici a giocare nel parco vicino casa. Se c’era bel tempo, dopo aver fatto i compiti (fatti…diciamo pure fatti…ma in realtà li buttavo giù alla come viene viene), andavo ai giardinetti di Gretta (il mio quartiere in collina) con mamma che mi accompagnava. Una vergogna abissale…sì, perché alcuni dei miei amici venivano da soli. Invece le mamme presenti facevano a turno: una restava a fare la guardia e le altre se ne andavano ma restavano in collegamento di telefonino, a osservare noi piccoletti che giocavamo a pallone, a correrci dietro, a nascondino, ai numeri, a universo saltato o ci scambiavamo le figurine dei Pokemon. Ci divertivammo una cifra, anche perché al parco c’eravamo praticamente solo noi, un gruppo di gatti randagi che abitavano là e qualche pensionato che veniva a tirarsi un pisolotto sulla panchina.
Ogni giorno alle tre e dieci spaccate, diretto al centro della città, passava giù per strada del Friuli un nero, uno di quelli che vendono giornali e coloratissime bandane, accendini e libri di cucina africana. Noi lo salutavamo, lui sorrideva, ogni tanto ci regalava un braccialetto, si chiamava Andrè.
Cos’ho scritto poco fa? Che al parco c’eravamo solo io e i miei amici? Sbagliato, perché un bel giorno (anzi: un brutto giorno) arrivarono quelli del quartiere di Barcola, che sta in riva al mare, sotto a Gretta.
Avevano circa la nostra età ed erano prepotenti e antipatici. Litigammo dal primo momento. Ma lo facevamo di nascosto dalla mamma-guardiana di turno. Ci davamo calci dietro i cespugli, ci sputavamo nascosti da un albero, ci pizzicavamo oltre l’angolo della villa abbandonata, ci mollavamo pugni e spintoni quando la mamma-poliziotta guardava dall’altra parte. Un pomeriggio i barcolani ci rubarono il pallone e lo ritrovammo tagliato in due come un’anguria. Il giorno dopo (o il giorno prima) noi spaccamo i pedali della bicicletta di uno di loro. Un’altra volta Matteo si prese una pietra in testa e gli venne fuori sangue come da una fontanella aperta. Insomma, dopo un mese le cose andavano sempre peggio e ci facevamo sempre più male, tutti quanti, noi di Gretta e loro di Barcola. Ma non potevamo mica dargliela vinta. No?
Però i gatti se ne erano andati via, le ore passate al parco non erano più divertenti, appena pranzato a me veniva mal di stomaco e di sera spesso vomitavo mezza cena e l’altra metà mi andava su e giù come in un ascensore che non funziona bene.
Ma il pomeriggio seguente ero là, con i miei amici, a combattere contro gli schifosissimi barcolani.
Un giorno, appena arrivo, il più odioso di loro, Fabio, mi strappa via dal polso il braccialetto di cotone che mi aveva regalato Andrè e lo butta, tutto rotto, sul marciapiede davanti ai giardinetti. Io non lo raccolgo di certo! Infettato com’era dalle manazze luride del barcolano…
Poi, come sempre alle tre e dieci precise, guardo fuori dal cancello del parco per veder passare Andrè, con il suo zaino strapieno di riviste e di oggettini.
“Ciao, Michele” mi dice, poi vede due cose, una che manca e una che c’è. Quella che manca è il vuoto sul mio polso sinistro, l’altra sono i brandelli del braccialetto sparsi per terra. Così Andrè si ferma e mi domanda: “Non piaceva più?”
“No. E’ che…”
“Si è romputo?”
“E’ stato Fabio”
“Rabbiato con tu?”
E allora gli racconto tutta quanta la storia.
Alla fine, Andrè si gratta la testa piena di capelli ricci: “Oggi non posso. Domani arrivo più prima e vengo in parco”
“Così ai barcolani li fai tutti neri” Poi accorgo della cavolata che ho sparato e gli chiedo scusa. Ma lui se la ride: “Tutti neri, ha detto” e dirigendosi verso il centro si ripete la frase da solo e ogni volta sento la sua risata.
Potete immaginare come mi sento gasato, in attesa di domani, quando il mio amico Andrè farà uno sterminio dei barcolani, rincorrendoli per le stradine e poi appendendoli agli alberi come pelli di coniglio. Non lo anticipo nemmeno ai miei amici più fidati, voglio essere solo io a pregustare questa mitica vittoria, questo leggendario trionfo, questa tremenda vendetta. E allora oggi guardo i barcolani con un po’ di pietà. E penso: domani Andrè vi fa neri.
E infatti eccolo qua, alle tre meno dieci. Entra nel parco senza zaino, si siede su una panchina libera, molla un fischio che lo sentono oltre tutto il golfo di Trieste fino in Slovenia, due pensionati che russavano come motorini in salita aprono gli occhi, tutti guardiamo Andrè, la mamma-guardiana i barcolani e noi di Gretta. Poi lui batte le mani nere con uno schiocco che arriva fino in Croazia e dice: “Qua!”
Gli ubbidiamo e ci raduniamo davanti a lui, tutti mescolati fianco a fianco, amici e nemici. Adesso se li mangia vivi, penso io.
E invece non va esattamente così.
Con il suo italiano che fa un po’ ridere, Andrè ci racconta la storia della sua vita, che è nato in Ruanda, che lui è un hutu, che hutu e tutsi non andavano d’accordo, che nel suo paese c’è stata una guerra, che in tre mesi sono morte ottocentomila persone, che la sua famiglia di nome Habyarimana era hutu ma non voleva ammazzare i tutsi e così tutti i suoi parenti sono stati uccisi e lui è scappato in Italia.
Poi dalle tasche tira fuori braccialettini colorati e li distribuisce. Se li mettono anche i due pensionati.
Da quel giorno, noi di Gretta e quelli di Barcola giocammo insieme.
Però ogni tanto qualche calcione ce lo davamo lo stesso.
Luciano Comida
da "Costruire la pace"
edito La Libreria dei Ragazzi-Unicef, 2005
bella, bella, bella! Consiglio la visione di un film: A day without a Mexican...
Scritto da: Roberta | 01/03/2010 a 17:10
Grazie del consiglio. Me ne aveva parlato bene anche il mio amico Gianni Ursini (gran divoratore di cinema, collaboratore di Urania e di Nocturno).
Scritto da: luciano / idefix | 01/03/2010 a 17:48
Grande Luciano, molto bello il racconto. Ma mi è venuto un brivido per una parola che ho sentito stonata: ambaradàn. Capisco che ormai è d'uso comune con il significato che intendevi tu, ma come sai deriva dal massacro dell'Amba Aradan, e quando alla fine Andrè parla di un altro massacro di neri, c'è un collegamento (involontario fin che vuoi) decisamente inquietante.
Nessuna critica, sia chiaro, solo questo strano effetto che mi ha colpito.
Scritto da: marino | 01/03/2010 a 22:13
Acuta osservazione, Marino: è un mio scivolone. E se qualcuno me l'avesse fatto notare PRIMA della pubblicazione, avrei sostituito la parola.
Scritto da: luciano / idefix | 01/03/2010 a 22:26