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10/02/2010

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Non conosco bene l'argomento.
Sbaglierò, ma ho l'impressione che "il giorno del ricordo" (delle foibe) così come viene presentato sui media, sia stato istituito con la sottaciuta intenzione di creare una situazione di "Par condicio" col giorno della memoria della shoah...
della serie i morti (della seconda guerra mondiale: partigiani e repubblichini) sono tutti uguali: affermazione che mi non mi convince affatto.

C'è di peggio.
Vien fatta passare questa perversa idea:
NOI ITALIANI SIAMO SEMPRE INNOCENTI.
PERCHE' LA SHOAH (A CUI E' DEDICATO IL GIORNO DELLA MEMORIA) L'HANNO FATTA SOLO I CATTIVI NAZISTI TEDESCHI, MENETRE LE FOIBE LE HANNO CAUSATE I CATTIVI JUGOSLAVI COMUNISTI.
NOI ITALIANI SIAMO BUONI, SEMPRE, E IL FASCISMO NON C'ENTRA NIENTE, MAI.

Non ho vissuto (graziaddìo) in quegli anni, ma la mia famiglia perse la "ch" finale nel cognome in quell'epoca.
E quindi qualche storia di famiglia, con tanto di raid punitivi di italiani contro gli "sciavi", almeno per sentito dire, la so anche io.
Follie accumulatesi per lungo tempo.
Il discorso di Ilva, quello sulla 'par condicio' (altra mostruosità), convince anche me.

Sì, la par condicio, bella balla, tuttavia è anche vero che i familiari delle vittime in buona fede, senza alcuna protezione politica per lungo tempo, sono rimasti anche senza ascolto e senza memoria, perché le vittime delle foibe non venivano mai citate come vittime di guerra. Semplicemente erano cancellati dalla memoria, non esistevano. Che si sia fatto per riequilibrare o meno, comunque è giusto che si ricordi anche questo eccidio. Credo anche, che, pur non giustificando tanta efferata violenza, non si possa decontestualizzare il fatto, come giustamente ha scritto Luciano. Per lo stesso motivo mi arrabbio quando qualcuno fa la morale su piazzale Loreto. Bisognava esserci, bisognava viverci, bisognava aver subìto ed essere lì con i responsabili di tanta violenza e miseria a disposizione. È facile giudicare col senno di poi, da lontano, nel tempo e nello spazio. Ma come ci saremmo comportati al posto di chi infierì sui cadaveri?

Eccettuato l'immediato dopoguerra, per molti anni non si seppe che poco o nulla sugli avvenimenti del "confine orientale", ridotti a una questione locale, triestina e basta: sia quanto commesso dal 1920 al 1945 dai fascisti, sia per quanto fatto dai tedeschi, sia infine per quanto fatto dagli jugoslavi.
In particolare, i crimini delle truppe di Tito, rimase incistito dentro il dibattito politico e storiografico soltanto a Trieste.
Poi le cose piano piano mutarono e da qualche anno la vicenda è diventata una "questione nazionale". Come mai?
Perché, tra i quasi 60 milioni di morti causati dalla Seconda guerra mondiale, proprio i mille/duemila italiani delle foibe sono diventati così simbolicamente rilevanti?
E perchè proprio l'esodo dall'Istria (drammatico, doloroso, ingiusto, ma che ha riguardato circa trecentomila persone di lingua italiana) viene ancora brandito come un'arma sanguinosa senza inserirlo nel contesto degli altri esodi europei che seguirono il 1945? Un immenso esodo europeo che coinvolse milioni e milioni di persone, con sofferenze inenarrabili. Ad esempio i tedeschi che
dovettero abbandonare la Cecoslovacchia per la Germania: quasi tre milioni di profughi, e nel trasferimento ne morirono 267.000 (fonte: Tony Judt, Dopoguerra, Mondadori, 2007, pagina 35).
Perchè dunque in Italia si vuole tenere la ferita delle foibe ancora aperta? Per dimenticare i crimini commessi, in queste terre, dai fascisti italiani contro sloveni e croati. Venti anni fa, il crollo del muro di Berlino e le sue conseguenze sulla politica interna italiana (la scomparsa dei vecchi partiti e la nascita di nuovi) causò una grave crisi di identità e di coesione nazionale. Sia la destra che la sinistra pensarono di rispondere ricorrendo anche a uno strumento tradizionale: il patriottismo (nella migliore ipotesi) e il nazionalismo (nella peggiore).
La vicenda “foibe” era perfetta per gli scopi della destra: cancellava i crimini fascisti per gettare ogni colta sul nemico esterno, lo "slavo-comunista". E la destra l'ha sfruttata in pieno, anche per screditare la Resistenza.
Così, da questione "locale", le foibe divennero (più o meno dagli anni Novanta) una questione "nazionale": mediante un’intensa azione di propaganda efficace e a senso unico, non contrastata dal punto di vista mediatico da una sinistra imbelle. Che temeva di venir accusata di difendere i crimini del titoismo comunista.
Il risultato è nefasto: dei delitti e delle responsabilità pluriventennali del fascismo non si parla più e nella condanna delle foibe viene coinvolta anche la Resistenza italiana (che non c'entra nulla).

La bufala degli "Italiani brava gente" è stata smontata da storici come Angelo DEl Boca, il primo che ha denunciato le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia: impiego massiccio di armi chimiche come iprite, fosgene ed arsina; creazione di veri e propri campi di concentramento; deportazioni ed uccisioni di massa.
Nei testi scolastici di storia, l'argomento resta comunque tabù.

PS: mi riferisco (sottoscrivendolo) al commento di Luciano delle 20,39.

E adesso...buonanotte.
Le previsioni del tempo, annunciano di nuovo neve...domani mattina, verso le otto, immaginatemi vestita come un esquimese, mentre spalo!

Ho letto qualche libro di Gianni Oliva sull'argomento ("Foibe", "Profughi" e "Si ammazza troppo poco") e quindi condivido assolutamente il senso del tuo post.Il giorno del Ricordo, tagliato a metà, ignora tutto quel il fascismo fece in Slovenia e Dalmazia, con lo scopo di annientare (culturalmente e fisicamente) ogni "slavità". Per questo non lo celebro, e rifiuto di parlare di foibe se non iniziamo a farlo dal Ventennio.

@ilva: qui a torino nevica STUPENDAMENTE da un paio d'ore!

Sulla vicenda del "confine orientale", vi suggerisco cinque libri:
IL DOLORE E L'ESILIO di Guido Crainz (Donzelli),
FOIBE di Jojze Pirjevec (Einaudi),
IL LUNGO ESODO di Raul Pupo (Rizzoli),
il romanzo LA MIGLIOR VITA di Fulvio Tomizza (Rizzoli),
il diario PRIMAVERA A TRIESTE di Pier Antonio Quarantotti Gambini (Mondadori negli anni Sessanta, poi mi pare ristampato dalla Lint).

@ilva: la tua ipotesi è tragicamente giusta.

A proposito di Che tempo che fa...
Ho sentito che a Trieste, la bora soffia a 130 km/h.
Luciano, vabbè che sei un Marcantonio, ma ti prego: mettiti qualche pietra in tasca. Non vorrei vederti sfrecciare sopra i miei tetti come un siluro impazzito! :-)

Grazie per questo post interessantissimo.
Prima di ciò ne sapevo solo per racconti personali di un'amica la cui famiglia fu trasformata da Lovrich in Lauri proprio nella parte ventennio, non compresa nella copertura mediatica di questo fantoccesco giorno del ricordo a scoppio ritardato...

D'accordo, al solito, pienamente d'accordo con la visione di Luciano. Semmai integrandola col dire che ben più addietro nel tempo vanno ricercate le cause dei luttuosi avvenimenti che hanno avvelenato la fine delle guerra da queste parti e che si sono poi protratti, con diverse modalità, fino a intralciare ancora il nostro presente.
Già dalla seconda metà del secolo XIX, all'indomani di quel fatidico 1848, si costituì, nell'ambito della maggioranza di lingua italiana residente a Trieste,un raggruppamento politico di tipo nazionalista, il cui strumento operativo fu il partito liberal-nazionale che, con brevi parentesi, ha amministrato la città e continua ad amministrala, da oltre un secolo e mezzo.
Maggioritario all'interno della comunità italiana, questo blocco non è stato tuttavia l'unica esperessione politica degli italiani di queste terre. C'è stata, difatti, anche una diversa scuola di pensiero che oggi definiremmo europeista, la quale vedeva nel possibile disfacimento dell'Impero austro-ungarico l'inizio di un rapido declino (che puntualmente si è verificato) dei destini economici della città. Tale orientamento, minoritario ma vitale, ha visto il concorso di numerosi intellettuali invaghiti dall'idea che si potesse realizzare qui un'utopia di comunanza tra etnie diverse, nel reciproco rispetto e con la concorrente volontà di ciascuna di esse di dar luogo a una diversa forma di convivenza civile che non fosse imperniata sulla contrapposizione di sterili nazionalismi. Uomini come il socialista Angelo Vivante, ma anche il giovanissimo intellettuale Scipio Slataper e l'enturage giuliano che attorno a lui si coagulò nella redazione della rivista fiorentina La Voce, negli anni a cavallo tra il primo e il secondo decennio del Novecento vedevano in un'ordinata convivenza di più nazionalità lo sviluppo di questa regione di confine.
La tragedia che iniziò a profilarsi con l'attentato di Sarajevo tacitò quelle coscienze (non quella di Vivante, che morì suicida per non essere arruolato) in un bagno di irrazionalità interventista che pervase per intero la classe intllettuale italiana alla vigilia dell'entrata in guerra.
Ciò non toglie che molti dei loro ideali sopravvivessero e in un certo senso noi vediamo oggi, con il compiersi dell'unificazione europea, alcune delle positive ricadute di quella loro visione.
Ma si tratta di minoranze, purtroppo: la vera storia l'hanno fatta gli altri, ed è spesso stata una storia di prevaricazione e di persecuzione, che non poteva non sollecitare una reazione uguale e contraria.
Mettere oggi in luce quella reazione senza spiegarne gli antefatti è operazione di un cinismo disarmante e disgustoso, che oltretutto perpetua nel tempo il colossale equivoco che vede gli esuli istriani, prime vittime degli errori e delle nefandezze di ispirazione irrazionalmente nazionalistica ed imperialistica, compattamente schierati a sostenere gli epigoni di quegli stessi artefici delle loro disgraziate vicende.

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